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Torino 3 luglio 1969, la rivolta di Corso Traiano

1960 torino

Il 3 luglio 1969 è l’atto della riscossa operaia, la resistenza di una periferia nata e cresciuta in nome e per conto della Fiat, la comparsa dell’operaio massa, la sconfitta del sindacato e la nascita delle organizzazioni extraparlamentari degli anni 70.

Corso Traiano apre un ciclo di lotte che si svilupperanno negli anni 70, agli stessi cancelli di Mirafiori, vedendo crescere la classe operaia fino al suo punto di forza più elevato. Mirafiori è il teatro sociale e politico di una nuova figura operaia, quella dell’operaio massa, generalmente immigrato dal sud, non qualificato che rompe la tradizione torinese dell’operaio specializzato, di cultura PCI, fortemente inquadrato nel sindacato, con una tradizione lavorista che lo ha sempre portato a rivendicare diritti in base alle proprie capacità produttive. L’operaio massa spazza via questa figura, relegandola ad una nicchia in fabbrica, e proprio nella Torino modellata per nome e per conto della Fiat, quella che “non affitta case a meridionali”, questa nuova figura pone sul piatto del conflitto tutto, mettendo in crisi, quel sistema di contrattazione e di gestione che il sindacato era diventato per i movimenti operai. Basta mere rivendicazioni professionali, le lotte dell’operaio massa nascono libere, slegate da qualsiasi imbrigliamento del connubio capitale-sindacato, e danno vita a nuove pratiche del conflitto, che si adattano al presente, che sono realmente incisive contro il nuovo assetto del capitale, mettendolo decisamente in crisi.

Il “Vogliamo Tutto” del romanzo di Nanni Ballestrini è la piattaforma di uomini e donne che iniziano, insieme alle prime forme dell’Autonomia, a parlare di rifuto del lavoro, fabbrica sociale, di qualità della vita di bisogni sociali. La lotta alla Fiat diviene la scuola per tutti i compagni e le compagne che mirano ad una trasformazione radicale dell’esistente. La rivolta di corso Traiano esemplifica tutto ciò, nel giorno di una manifestazione slegata ed in conflitto con il sindacato, militarizzata dalla Questura di Torino, che vuole portare nel cuore della metropoli le lotte della fabbrica, si sviluppa uno dei momenti più alti nel conflitto cittadino, dopo quelle di piazza Statuto del 1963, vedendo mirafiori e la prima periferia torinese, ingaggiare la battaglia con le autoblindo fino a tarda notte. Una rivolta dispiegata: dalle strade ai balconi dei palazzi, da corso Traiano a Nichelino, gli scontri si moltiplicano e le forze dell’ordine sono costrette a riparare in difesa, rispetto a quella che sarà la forza del conflitto operaio e sociale.

1969, Corso Traiano e lotta di “massa”

Uno a uno gli strumenti con cui i padroni ci controllano vanno a farsi fottere. In fabbrica è finito il tempo di ricatti di guardioni e capi, e degli imbrogli dei sindacati. Fuori è finito il tempo della paura della polizia, o delle menzogne dei giornali e della radio…La nostra lotta si rafforza, si organizza, si estende, a Torino come in tutta Italia. E’ questo che mette in crisi il governo dei padroni, e li costringe a fare i duri. Ma dietro quel ghigno duro c’è una smorfia di paura, come sulle facce dei poliziotti di ieri. Noi ieri abbiamo imparato una cosa importante: che la forza è dalla nostra parte e che possiamo vincere. Non da un giorno all’altro certo, ma con una lotta lunga e continua. La giornata di ieri ha segnato in questa lotta una tappa fondamentale.

Già ad inizio gennaio (del 1969) Potere Operaio aveva aperto con il titolo “ricacceranno indietro la lotta operaia, è nel disegno dei padroni, a far passare un nuovo governo e in prospettiva l’accordo di potere con il Partito Comunista”. Ci si riferisce, ovviamente, alla politica di Moro, alla strategia dell’attenzione, ai colloqui che cercano sponde a sinistra per la ristrutturazione di mercato, per traghettare il capitalismo – e quindi l’intero sistema lavoro-produzione-consumo o sviluppo/sottosviluppo – dal modello industriale a quello di massa, al fordismo e al taylorismo. Il peso della crescita è interamente sulle spalle degli operai. Le vittorie sindacali – sempre grazie alla lotta dei lavoratori – sono molte; nascono le scuole materne di stato, vengono abolite le gabbie salariali, si crea la scala mobile, si uniforma la paga tra nord e sud del paese, aumentano le pensioni. Già un anno prima, alla fine dello sciopero, nel novembre del 1968, il Comitato di Lotta della Lancia di Torino chiarisce che «non serve a nulla limitarsi all’incazzatura contro i sindacati e brontolare contro il “tradimento “. Gli operai della Lancia devono trarre da questo sciopero tutte le lezioni e gli insegnamenti che possono servire nelle lotte future, ad evitare compromessi vergognosi che indeboliscono e dividono gli operai di fronte al padrone. Lo sciopero della Lancia non va visto come un fatto isolato. Esso è stato solo un momento, un episodio, di una lotta più generale che la classe operaia italiana sta combattendo contro tutto il piano di riorganizzazione capitalistica, a livello nazionale e internazionale, con vittorie e sconfitte. Le grandi aziende capitalistiche, come la Fiat, la Montedison, si stanno concentrando in complessi sempre più vasti e costringono le aziende minori a riorganizzarsi e ad integrarsi con loro. Questo piano comporta in certe aziende licenziamenti, riduzioni d’orario, riorganizzazione interna, aumento dello sfruttamento. E dappertutto chi paga i costi delle operazioni capitalistiche è sempre la classe operaia. Le organizzazioni sindacali e i partiti riformisti che stanno dietro di loro, invece di opporsi radicalmente a questo piano accettano che le concentrazioni capitalistiche avvengano a spese degli operai. In questi giorni esse hanno concluso, con il governo e con gli imprenditori, un accordo che si limita a concedere un po’ di soldi in più agli operai colpiti dai licenziamenti o dalle sospensioni, mentre dà mano libera ai padroni all’interno di ogni fabbrica».

Passa un anno, denso di avvenimenti, e la situazione non cambia, peggiora. A Battipaglia – il 9 aprile – la polizia si toglie la maschera democratica e scopre il suo vero volto, sparando sulla folla in sciopero contro la chiusura di due grandi industrie. Due morti e 200 feriti. E’ il 1969. Passaggio obbligato per la mutazione del soggetto politico, dagli anni delle barricate degli operai-immigrati di Piazza Statuto, gli episodi di Corso Traiano lasciano sul selciato della battaglia importanti indicazioni. E il lessico ne riflette il significato; la lotta dei lavoratori della Fiat non è rivolta, ma «il punto più alto dell’autonomia politica». Infatti gli operai, dopo cinquanta giorni di mobilitazione che hanno coinvolto un numero enorme di lavoratori e studenti, con il blocco della produzione, i sabotaggi e una propaganda politica che riceve la solidarietà di mezz’Italia, decidono di rompere gli indugi. La condizione dei sindacati è ormai distante dalla classe operaia, ricoprendo un ruolo di rappresentanza delle categorie nella conduzione delle trattative, con pochissimi radicamenti nelle fabbriche. Proprio in questo contesto, dove è nuovamente il bisogno proletario, non solo del lavoratore Fiat ma anche della sua famiglia, ad occupare le assemblee ed a diventare rivendicazione, viene proclamato uno sciopero di 24 ore. L’intento, ovviamente, è quello di uscire dalla condizione di isolamento e di alienazione della fabbrica, di iniziare un percorso politico autonomo – non più succube della contrattazione, ma fiero della propria appartenenza, anche ideologica, alla storia della classe operaia – di allargare il più possibile il campo delle rivendicazioni (per esempio contro il caro-vita, caro-affitti).

La Fiat non è solo Torino, ma tutt’Italia. Ciò che succede a Torino fa da modello, e trova sbocchi nelle fabbriche di tutto il paese. Non per un’estetica dello scontro, del fatto eclatante, ma per il suo significato. Perché le condizioni di sfruttamento e la “fine del mese” sono condivise da tutti i lavoratori in tutta la penisola.  Questo è il punto fondamentale, il vero colpo di genio che trasporta una lotta dura in una guerra a campo aperto. Non quello della fabbrica, dove i comportamenti sociali vengono regolati con meccanismi di punizione, ma della piazza, dello scontro, del conflitto anche militare. E, ancora una volta, le parole si fanno simbolo. Sono gli anni delle vittorie del Viet Nam del Nord, sotto Ho Chi Minh e Vo Nguyen Giap, del dopo offensiva del Tet. Nixon è costretto ad aprire a Parigi, nel gennaio del 1969, le trattative di pace. Anche se poi la guerra finirà parecchi anni dopo, rimarrà nella memoria dei comunisti l’insegnamento del Viet Nam che vince contro il più grande esercito del mondo. Quindi non c’è da stupirsi se, proprio gli operai torinesi, in corteo ripetono lo slogan «Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina». Come detto il campo dello scontro è cambiato. Ha preso le strade torinesi. Lo sciopero generale, nelle mani degli operai, viene organizzato per unire, allargare ed espandere la protesta. Anche sul terreno spaziale – quello dell’organizzazione della città – il percorso deciso sintetizza gli intenti; unire Mirafiori con i quartieri popolari, ripercorrendo al contrario il tragitto del dopo lavoro, verso i quartieri-dormitorio che dall’inizio degli anni sessanta sorgono nelle periferie della città per spostare dal centro i lavoratori. La città ricostruisce uno schema societario piramidale, dove più si allontana dal centro e minore è il potere; l’importanza che diventa decisionalità si basa sulla rappresentanza, sulla delega come modello per affermare il proprio dominio. Una delle critiche del nuovo soggetto politico sarà proprio su questo passaggio, quello della delega. Nella scuola come nella fabbrica; non si tratta più di una critica ribellistica, ma del punto di contatto dal quale partire per svolgere le contraddizioni del presente.

L’iniziativa operaia si fonde con quella studentesca. Questo dato riporta al realismo la corrente storica che vorrebbe porre su piani differenti il 1968 studentesco e le lotte operaie. Se un paragone è permesso potrebbe essere quello dei binari paralleli, distinti ma capaci di diventare insieme la via d’accesso e di sviluppo del conflitto. Si tratta di ambiti differenti, ciascuno con proprie pratiche e parole d’ordine. La prova di forza, che prende il via davanti i cancelli di Mirafiori giovedì 3 luglio 1969, non è solo contro la fabbrica. Ma anche contro i partiti, i sindacati. A migliaia, con la loro partecipazione, sfidano tutto il modello di produzione; è nato un nuovo soggetto politico che è capace di determinare il proprio futuro senza bisogno dei capetti (dentro e fuori dalle fabbriche). Ed è proprio per questo che il corteo, prima ancora di mettersi in cammino, viene caricato a freddo. La polizia protegge un ordine sociale che va ben oltre la legge, è ordine di classe. Uscire dalle maglie della rappresentanza, anche sindacale, significa portare lo scontro su di un altro terreno. Più alto e potenzialmente pericoloso per lo stesso ordine sociale. Se la guerra non è nient’alto che la continuazione della politica con altri mezzi – come diceva il generale prussiano Von Clausewitz – cosa sta per succedere a Torino è una ovvia, ma brutale, conseguenza. «La polizia carica di nuovo, furiosamente. Ma poliziotti, padroni e governo hanno fatto male i loro conti. In poco tempo, non sono solo le avanguardie operaie e studentesche a sostenere gli scontri, ma tutta la popolazione proletaria del quartiere. Si formano le barricate, si risponde con le cariche alle cariche della polizia. Per ore e ore la battaglia continua e la polizia è costretta a ritirarsi. Il corteo non serve più, è la lotta di massa che conta. Non è una lotta di difesa: mentre gli scontri si fanno più duri nella zona di Corso Traiano, la lotta contagia altre zone della città, dal comune di Nichelino a Borgo San Pietro, a Moncalieri. Dappertutto le barricate, le pietre, il fuoco vengono opposti agli attacchi della polizia.

I giornali parleranno di estremisti: sono gli operai di Torino, i ragazzi, le donne. Decine di migliaia di “estremisti”, coscienti che l’unica arma degli sfruttati è la lotta, e che vincere è possibile. Poliziotti e carabinieri, abituati a picchiare vigliaccamente, hanno paura, si disperdono. Mandati a bastonare un corteo, si trovano di fronte alla forza impressionante della classe operaia». La stampa si chiede anche un’altra cosa, importante. Cosa vogliono questi “delinquenti”? Le risposte sarebbero tante ed importanti; conquistare un ruolo da protagonisti in fabbrica, eliminare le briglia del sindacato da una parte e del padrone dall’altro, vogliono un aumento salariale (100 lire per tutti) e di categoria (la seconda), la riduzione dei tempi di lavoro. Ma non solo, vogliono molto di più. Un cartello innalzato sulle barricate recita”Cosa vogliamo: tutto!”. Così spiega il documento dell’assemblea operaia dei 5 luglio: «Oggi in Italia è in moto un processo rivoluzionario aperto che va al di là dello stesso grande significato del maggio francese. Non è un movimento improvviso, ma una lunga lotta che stringe saldamente operai, studenti, braccianti e tecnici, una lotta in cui i progetti capitalistici vengono continuamente sconvolti. Il governo Rumor cade ridicolmente a un giorno di distanza dalla lotta generale di Torino. La violenza repressiva, ben lungi dal distruggere le avanguardie militanti, si scontra con la lotta di massa e la radicalizza. Il grande programma di inserimento del PCI al governo viene svuotato dalla distruzione progressiva dell’influenza del PCI sui movimenti della classe operaia».    Non si tratta solo di una questione di salario, l’obbiettivo è ben più alto, è “la presa del potere”. Alcuni storici vedono, in questo passaggio, il punto di partenza per l’assalto al cielo e della capacità di ipotizzare la costruzione di un percorso rivoluzionario. Certamente la guerra di Corso Traiano passerà alla storia per la dimensione dell’operaio-massa e per aver ridato alla classe operaia l’attenzione sul tragitto politico da intraprendere, slegandolo da partiti e sindacati, facendo dell’autonomia un’area extraparlamentare affollata di soggetti e di percorsi. (da InfoAut)

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