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Apologia del terrorismo, criminalizzazione della solidarietà e delitto d’opinione

Il regime francese di Macron e Darmanin scatena la criminalizzazione della solidarietà e il delitto d’opinione attaraverso l’apologia del terrorismo. Dopo la candidata europea Rima Hassan, c’è stato il turno di un’altra personalità della LFI (La France Insoumise), la deputata e presidente del gruppo parlamentare Mathilde Panot, ad essere convocata dalla polizia nell’ambito di un’indagine per “apologia di terrorismo”. Nuova illustrazione dell’uso di dispositivi antiterrorismo contro l’attività militante, sindacale e politica in una società ora esaminata dall’attivismo di sorveglianza.

 di Vanessa Codaccioni (storica e politologa) da Aoc.media

L’apologia del crimine fu inventata alla fine del XIX secolo per reprimere le “attività anarchiche” in un contesto di aumento degli attentati. Questo reato di “apologia del crimine” fa quindi parte di un insieme di misure adottate per “eliminare per sempre il territorio della Repubblica francese dalla banda anarchica”, secondo le parole dell’allora presidente del Consiglio Dupuy nel 1884[1]. Come la creazione del reato di associazione per delinquere che oggi conosciamo bene poiché costituisce il grosso del contenzioso terroristico, l’apologia del crimine è parte integrante delle “leggi canaglia” volte a sottoporre alla giustizia ogni discorso anarchico che minacci “sicurezza dello Stato” ma che in realtà mira a mettere a tacere ogni forma di opposizione della sinistra. Fin dalla sua origine, l’apologia del crimine si rivolge quindi a discorsi “imbarazzanti” per chi detiene il potere. È così che in certi momenti storici il potere si mobilita per criminalizzare l’azione di protesta dei nemici interni super criminalizzati. Ad esempio, durante la Guerra Fredda e la Guerra d’Indocina, [in Francia, come in latri momenti storici in altri paesi] gli attivisti comunisti potevano essere accusati di “favorire il saccheggio”, l’incendio doloso o l’omicidio, ma anche di sostenere atti di disobbedienza militare quando appoggiavano l’azione dei soldati che si rifiutavano di andare a combattere nelle guerre coloniali.

Lo stesso fenomeno è stato osservato negli anni ’70 contro gli attivisti maoisti della Sinistra proletaria (spesso accompagnato da “provocazione al crimine”), come i leader di La Cause du peuple, Jean-Pierre Le Dantec e Michel Le Bris, rispettivamente condannati a Parigi dalla 17a sezione dell’Alta Corte il 28 maggio 1970 a un anno e otto mesi di reclusione per provocazione e apologia di crimini e delitti. Anche in questo caso sono i “nemici pubblici numero 1” ad essere presi di mira da questo reato. Tuttavia, il reato di istigazione al terrorismo è stato creato solo nel 2006 (la parola “terrorismo” è entrata nel codice penale solo nel 1986) nel contesto di una globalizzazione giuridica e penale del terrorismo, per la quale ogni comportamento suscettibile di presentare un nesso, anche immateriale, con il terrorismo è incriminato [in Italia le leggi speciali antiterrorismo furono varate negli anni ’70[2] e sono rimaste in vigore facendo anche scuola agli altri paesi]. Il terrorismo sta gradualmente diventando un “fenomeno criminale globale” di cui ogni fase è riprovevole e condannata: l’intenzione, gli atti preparatori, l’atto stesso ma anche ogni possibile “prolungamento”, sostegno o forma di solidarietà. Di qui la centralità data all’apologia del terrorismo, che nel 2014 è stata anch’essa sottratta ai reati di stampa per divenire reato “ordinario”, che consente di assoggettare tali atti di apologia alle norme procedurali di diritto comune e ad alcune norme previste in materia di terrorismo come la possibilità di procedere a sequestri e di ricorso alla comparizione immediata, esclusa in materia di stampa, o di aggravanti di pena se i fatti sono commessi via Internet. Istituita per punire la propaganda e ostacolare la strategia mediatica delle organizzazioni terroristiche che giocano sulla glorificazione e sull’eroizzazione, la repressione dell’apologia del terrorismo è stata utilizzata in modo esasperato dopo gli attentati del gennaio 2015 a Parigi, per lo più in seguito alla pubblica espressione di solidarietà con i fratelli Kouachi o con Amedy Coulibaly, autori degli omicidi di Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher che hanno provocato diciassette morti. Questi molteplici processi, che si svolgono davanti al tribunale penale, all’inizio del 2015 riflettono questo nuovo orientamento penale e giudiziario dell’antiterrorismo e illustrano i processi per terrorismo che possono svolgersi lì, vale a dire processi per atti di bassa gravità penale, o per quantomeno per fatti sempre meno legati ad atti cosiddetti “terroristici” o alla realizzazione di attentati[3]. L’apologia del terrorismo dà tuttavia luogo ad alcuni plateali eccessi, come la condanna a 3 mesi di carcere di un 18enne per aver denominato Daesh il suo wifi[4] o la convocazione da parte della polizia di studenti delle scuole medie, talvolta giovani bambini, uno dei quali di 8 anni, per commenti fatti al di fuori dei minuti di silenzio all’interno dell’istituto scolastico[5]. Molti casi nascono da una segnalazione fatta via internet: sulla piattaforma Pharos sono state effettuate 35.000 segnalazioni per incitamento al terrorismo in seguito agli attentati del gennaio 2015, mentre per tutto l’anno precedente se ne erano registrate solo 1.500 di questo tipo[6]. “Per segnalare contenuti o comportamenti illegali, abbi il riflesso Pharos!” ha lanciato la polizia nazionale il 7 gennaio 2015 su Twitter.

I numerosi casi di apologia del terrorismo pubblicizzati dal 7 ottobre 2023 fanno quindi parte del lungo elenco di questo tipo, che si moltiplicano in Francia non appena viene effettuato un attentato. Hanno tuttavia una doppia specificità. Da un lato, non hanno alcun legame con atti terroristici avvenuti sul territorio francese, anche se alcuni casi potrebbero essere scoppiati all’inizio degli anni 2000. Citiamo ad esempio il caso di un settimanale basco di cui è direttore editoriale e il fumettista è stato multato di 1.500 euro per una caricatura in cui si congratulava con Hamas per gli attacchi al World Trade Center[7]. Ma questi casi di apologia del terrorismo per commenti, discorsi o illustrazioni a seguito di un attacco commesso all’estero erano rari. Non è più così. L’altra specificità dal 7 ottobre è dovuta alla diversificazione e all’estensione dei target dell’apologia del terrorismo: sindacalisti, intellettuali, attivisti “di spicco”, personaggi politici, siano essi impegnati in una campagna elettorale o siano essi parlamentari dell’opposizione (fino al presidente di un gruppo nell’assemblea nazionale), gli studenti (come quelli dell’EHESS), sono uniti ai musulmani o presunti tali, solitamente convocati, processati e condannati per questo crimine. Oltre al moltiplicarsi delle posizioni sul conflitto israelo-palestinese e sulle reazioni agli orrori e alle tragedie del 7 ottobre e della guerra di Gaza, questa situazione deve essere messa in relazione con due fenomeni sociali che abbiamo ampiamente descritto altrove[8]: in primo luogo la utilizzo di dispositivi antiterrorismo contro l’attività militante, sindacale e politica, che si osserva dall’inizio degli anni 2000 e che non si riduce a questo tipo di procedimenti giudiziari (sorveglianza “antiterrorismo”, registrazione S, procedimento giudiziario per associazione a delinquere , arresti domiciliari degli attivisti, ecc.); e in secondo luogo la centralità del giornalismo nella repressione odierna. Infatti, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, siamo entrati in “società di vigilanza” in cui le autorità incoraggiano i cittadini a denunciare qualsiasi comportamento anomalo e sospetto, che susciti il timore di un atto terroristico o di un processo di radicalizzazione. Oltre alle consuete procedure di deferimento, le denunce su Internet contribuiscono così all’esplosione dei casi, a cui si aggiungono le denunce di associazioni o politici, come il deputato dell’opposizione che vanta sui social network le sue molteplici denunce dal 7 ottobre diventate oggetto di convocazioni da parte della polizia. Ciò che preoccupa oggi è questo attivismo di sorveglianza che rintraccia il minimo presunto errore allo scopo di sporgere denuncia e mettere a tacere uomini e donne in lotta, soprattutto in un contesto di crescenti divieti di manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese (divieto di manifestazioni, divieto di riunioni, annullamento di impegni di parlare in pubblico, ecc.). Ma sono motivo di preoccupazione anche l’apologia del terrorismo e dei suoi usi, soprattutto politici. L’apologia del terrorismo è, secondo la legge, l’atto di provocare atti terroristici o di sostenerli pubblicamente. Si tratta quindi di un incitamento al terrorismo, di un’esaltazione degli attentati violenti e mortali e delle loro conseguenze, di una soddisfazione espressa nei confronti della morte violenta di altri nel contesto di un attentato terroristico. Tuttavia, da quanto abbiamo visto sulla stampa nelle ultime settimane, le “scuse” per il terrorista non sono più solo il sostegno pubblico agli atti terroristici – sono i “bravo” e il “ben fatto” che esistevano la prima volta il 7 ottobre – ma l’espressione di solidarietà verso un popolo oppresso, che per questo viene criminalizzato. Allo stesso modo e con un’altra estensione del suo significato, ogni critica ad una politica, ad uno Stato, in questo caso Israele, è sanzionata da una citazione da parte della polizia, da un processo o da una condanna. Così facendo e in questi casi, l’apologia del terrorismo diventa uno strumento di limitazione della libertà di espressione, di censura e di autocensura per timore di ritorsioni, e si trasforma in un reato d’opinione per criminalizzare le lotte e l’opposizione.

Note:
[1] Le Procès des Trente. Notes pour servir à l’histoire de ce temps, 1892-1894, Éditions Antisociales, 2009, p. 6.

[2] Vedi “La giustizia, i giudici e il paradigma del nemico”, a cura di L. Pepino, Questione Giustizia, 2006/4: https://www.francoangeli.it/rivista/getArticoloFree/27672/It; Ferrajoli e altri nel numero speciale della rivista Questione Giustizia: https://www.questionegiustizia.it/speciale/2016-1; A. Baravelli “Per una storia della risposta penale al terrorismo italiano (1976-82)”, in Meridiana, No. 97 (2020), pp. 73-88, https://www.jstor.org/stable/26918335 e diversi articoli pubblicati qui https://www.osservatoriorepressione.info/tag/diritto-penale-del-nemico/

[3] Julie Alix, Terrorisme et droit pénal. Études critiques des incriminations terroristes, Paris, Dalloz, 2010, p. 144 et suivantes.

[4] Le Parisien, 4 novembre 2016.

[5] Le Monde, 29 janvier 2015.

[6] Le Figaro, 10 février 2015.

[7] La Dépêche, 9 janvier 2002.

[8] Vanessa Codaccioni, Répression. L’État face aux contestations politiques, Textuel, 2019 ; La société de vigilance. Auto-surveillance, délation et haine sécuritaires, Textuel, 2021.

traduzione a cura di Salvatore Palidda

 

 

 

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