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Se toccano una toccano tutti ?

Riflessioni sull’aggressione, il 4 maggio, ad una compagna di Cambiare Rotta a Bologna

di Renato Turturro

Di fronte a un fatto dove si pone il limite antropologico della fuga dal reale? Viviamo in una realtà fatta di accadimenti che spesso scuotono le nostre sensibilità, i punti fissi e quelli mutevoli. Saperli collocare dentro una cornice più ampia è un lavoro arduo, difficile e spesso impossibile, vista le velocità con cui viaggiano le informazioni, e accadono gli eventi. Ma nell’epoca in cui le notizie viaggiano più veloci dei fatti, l’assenza di reazioni immediate di fronte a qualcosa di cui costantemente si prova ad affrontare e combattere, ci indicano che le relazioni e la fiducia sono lacerate. Individualmente è probabile che si interiorizzi e si rifletta molto, ma un fatto diventa politico quando è collettivo. Per essere collettivo ha bisogno di relazioni, e queste, sono edificabili solo attraverso la pratica a cui seguono le parole.” In principio era il verbo”, ma il verbo è anche conseguenza del reale che esiste a prescindere dal verbo. Occuparsi della vita è politica, fare delle scelte è politica, e spesso come tutte le cose umane si commettono errori, di valutazione, di azione. Ma come mai quando accade qualcosa di prossimale il discorso continua a cadere su qualcos’altro, sicuramente meritevole di attenzione, ma difficile da risolvere perché lontano dalle vite di tutti i giorni e dei più? Il pensare globale e agire locale è stato tranciato nella seconda proposizione, gli interessi materiali vivi e diretti sono soppiantati da lunghe dissertazioni accademiche poi prive di azione. Prendere atto di questo è realismo, avere il coraggio di dichiararsi prigionieri della propria bolla è un atto di verità, che costa fatica. La parola senza azione e un rifugio su cui sostare tranquilli mentre i territori mutano, i processi sociali sono subiti passivamente ed è in corso “qualcosa” che continuamente sta cambiando la vita e l’antropologia umana. Nei capannoni a due passi da casa, nell’appartamento al piano di sopra, in strada, negli occhi di un passante c’è sfruttamento e dominio, c’è un silenzio che dovrebbe trasformare la rabbia individuale in una relazione collettiva, che ad oggi è assente o debole. E allora di fronte ad aggressioni e violenze ci si perde in un mare di parole per difendere un’immagine da sventolare in qualche acquario virtuale o in nome di qualche religiosa purezza. Forse questa rabbia non è così presente e diffusa, è soffocata o non esiste oppure esploderà quando le condizioni materiali si faranno stringenti, spaccando questa bolla anche al suo interno, per chiamare le cose con il proprio nome senza etichette e identificazioni stile yatch club sgangherato.

L’ennesima violenza ha investito il corpo di una donna in una città che si vanta di essere avanguardia culturale, ma che è anche avanguardia della repressione, è accaduta in un’atmosfera di guerra che sta investendo l’Europa e che sarà uno spartiacque storico, ma gli anticorpi sociali sono debilitati da anni di mancanza di relazioni, forse debilitati da una sindemia anche politica.

Ci si dovrebbe riversare nelle strade continuando ad avere dubbi, leggere le dinamiche che attraversano la società e i pericoli che potrebbero insorgere, trasformando le nostre parole in chiacchiericcio, buono solo per far ridere le polizie. Per ridare potenza e dignità alle parole servono le azioni che hanno bisogno di sentire sul proprio corpo qualsiasi ferita inferta a un altro corpo.

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