Menu

Sul caso della Asso 28 e i 108 migranti respinti: perché lo Stato italiano è responsabile

La vicenda della Asso 28, nave battente bandiera italiana che lavora a supporto di una piattaforma dell’ENI in acque libiche, è in grandi linee ormai conosciuta da tutti. Per questo non spendo che poche parole per ricostruire la vicenda, cercando invece di capire quali sarebbero le violazioni di diritto che potrebbero configurarsi.

Lunedì pomeriggio viene avvistato dall’equipaggio della Asso 28 un gommone con a bordo 108 persone in difficoltà le quali, dopo essere state soccorse e fatte salire a bordo, sono state riportate in Libia.

Questo il fatto certo. Da chiarire invece è se ci possa essere un coinvolgimento e dunque una responsabilità dello Stato italiano il quale, in tal caso, potrebbe essere condannato dalla Corte Europea dei Diritti Umani (Corte EDU) per violazioni di norme di diritto internazionale. Pare che la Asso 28 si trovasse a 57 miglia dalla Libia, ossia in una zona SAR (Search and Rescue), zona nella quale uno Stato svolge operazioni di ricerca e salvataggio con mezzi propri attraverso degli accordi tra i vari Stati costieri.

Va sottolineato che le zone SAR, come in questo specifico caso, possono anche essere acque internazionali dove nessuno Stato può esercita la sua sovranità e, pertanto, nè la Libia né l’Italia avrebbero potuto imporre la propria legislazione. Va però considerato che la Asso 28, essendo una nave civile battente bandiera italiana e trovandosi in acque internazionali, doveva applicare la normativa italiana: infatti, secondo il codice della navigazione, “le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranita’ di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano” (art. 4) e “i poteri, i doveri e le attribuzioni del comandante della nave o dell’aeromobile sono regolati dalla legge nazionale della nave o dell’aeromobile” (art. 8). Dunque, il comandante della Asso 28 avrebbe dovuto coordinarsi con lo Stato italiano. Difficile credere che non l’abbia fatto.

Ma semmai possa configurarsi una violazione nei suoi confronti è un qualcosa che da un punto di vista personale poco m’interessa (non svolgo la professione di PM); mentre ciò che più mi incuriosisce è capire il perché l’Italia potrebbe essere condannata dalla Corte EDU. Innanzitutto bisogna porre l’attenzione sull’art. 33 della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato (Convenzione), il quale sancisce il cosiddetto obbligo di non-refoulement, ovvero il divieto di respingimento, secondo cui nessuno può essere respinto (nel senso che non può essere impedito l’ingresso nel territorio di uno Stato sicuro) o espulso verso uno Stato dove la sua vita e/o la sua libertà verrebbero minacciate.

Questo principio dev’essere applicato non solo nei confronti delle persone a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato o coloro i quali sono in attesa di giudizio – magari della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale o in fase giudiziale -, ma addirittura anche alle persone che non ancora avanzano una formale richiesta di protezione internazionale. Così inquadrato il divieto di non respingimento va a configurarsi come vero e proprio diritto soggettivo della persona alla quale dev’essere riconosciuto il diritto ad entrare in uno Stato contraente la Convenzione, anche se questa persona entra illegalmente.

In definitiva, l’obbligo di non-refoulement, fa sì che a una persona non può essere impedito in alcun modo di accedere alle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. Un’altra considerazione sul divieto di respingimento riguarda il carattere extraterritoriale dello stesso che, come ricordato più volte anche dalla Corte EDU, va applicato ovunque uno Stato eserciti tutti o parte dei suoi poteri pubblici. Perché dunque lo Stato italiano potrebbe essere condannata dalla Corte EDU? Intanto per violazione dell’art. 33 della Convenzione: una nave battente bandiera italiana, sulla quale si sarebbe dovuta esercitare la giurisdizione italiana ed europea, avrebbe dovuto portare quelle 108 persone in un cosidetto porto sicuro, e la Libia, a ragione, non è considerata tale; dunque c’è stato un vero e proprio respingimento in quanto quelle persone sono state portate in un luogo dove la loro libertà e/o vita vengono messe in pericolo.

Inoltre c’è stata una chiara violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU), secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, dell’art. 13 CEDU e dell’art. 4 del quarto Protocollo della CEDU che vieta le espulsioni collettive. Per capire perché considero l’Italia responsabile della vicenda della Asso 28, prendo in considerazione la pronuncia della Corte EDU sul caso Hirsi del 2012.

Cos’è avvenuto? Il 6 maggio 2009, in acque internazionali, nella zona SAR di competenza maltese – spesso le autorità italiane intervengono anche nelle zone SAR maltesi in quanto Malta non dispone di equipaggi consoni a coprire l’intera sua zona di sua responsabilità – tre imbarcazioni con a bordo circa 200 migranti, tra cui bambini, vengono intercettate dalla Guardia di Finanza e dalla Guardia Costiera italiane.

I militari obbligano le persone “soccorse” a salire a bordo e, senza averli identificati e senza che viene lasciata loro la possibilità di avanzare una richiesta di protezione internazionale, vengono riportati in Libia e affidati alle forze di sicurezza libiche così come previsto dal trattato internazionale italo-libico del 2007 (non tutte le 200 persone respinte hanno presentato ricorso, ma solo 24 di esse. È da segnalare inoltre che 2 dei 24 ricorrenti, Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Sheriff Abbirahman, sono morti in circostanze ignote anche ai loro legali difensori all’interno delle carceri libiche).

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte EDU ha ricordato allo Stato italiano come in riferimento a questa disposizione non è possibile alcuna deroga – nemmeno in caso di guerra – avendo tale articolo carattere assoluto: il divieto di esporre le persone al rischio di trattamenti inumani e degradanti non può derogarsi in alcun modo, anche in riferimento a coloro definiti irregolari (addirittura non è nemmeno necessario che i trattamenti inumani e degradanti si siano verificati, ma il solo fatto che lo Stato esponga alcune persone a tale rischio va ad integrare i presupposti della violazione dell’arti. 3 CEDU costituendo questo un divieto assoluto inderogabile).

Questo divieto, inoltre, era già stato fortemente ribadito sempre dalla Corte EDU quando quest’ultima è stata chiamata a decidere sul caso del cittadino tedesco Soering il quale doveva essere estradato dal Regno Unito negli Stati Uniti (allora la Corte EDU decise in favore del ricorrente posto che nelle carceri statunitensi avrebbe rischiato di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti). Ma tralasciando vari tecnicismi (come quello della violazione sempre dell’art. 3 CEDU in relazione al principio del refoulement indiretto) ciò che desta certamente più interesse è la posizione della Corte EDU in riferimento alla violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU, laddove ricorrendo ad un’interpretazione teleologica della CEDU ha giudicato applicabile il divieto di espulsioni collettive anche qualora non ci si trovi in acque nazionali. In altre parole, la Corte EDU ha riconosciuto l’applicabilità extraterritoriale della CEDU basando tale ragionamento da un alto sul cosiddetto paradigma spaziale secondo cui la giurisdizione sussiste anche al di fuori del territorio se lo Stato esercita un effettivo controllo su di una zona, dall’altro sul paradigma personale, che sussiste qualora un’autorità statale esercita un controllo su una persona.

L’espulsione dunque, non sarebbe solo tanto l’allontanamento da un luogo geografico, ma bensì da uno spazio giuridico entro cui lo Stato esercita la sua giurisdizione. Pertanto, in tal senso, la Corte EDU ha constatato la violazione dell’art. 4 in quanto si è trattato di un’espulsione collettiva, benché avvenuta in acque internazionali, avvenuta senza alcuna identificazione delle persone espulse e senza concedere loro la possibilità di presentare la richiesta di protezione internazionale. Infine la violazione dell’art. 13 CEDU è stata ravvisata laddove ai migranti non è stata concessa alcuna possibilità di accedere ad una procedura volta a verificare la situazione individuale prima dell’espulsione in Libia. In sostanza, ad una persona dev’essere concessa la possibilità di esperire un ricorso alle autorità amministrative o giudiziarie prima dell’espulsione, a maggior ragione se la persona in via di espulsione reputa che nello Stato verso cui verrà espulso potrebbe subire trattamenti inumani e degradanti.

Rispetto al caso Hirsi risulta davvero complicato non ritrovare una stretta analogia con il caso della Asso 28, ravvisando infatti in quest’ultimo respingimento tutti i presupposti per una nuova violazione delle stesse disposizioni normative brevemente illustrate. Invero, da un lato secondo il codice della navigazione, sarebbero dovute essere state le autorità italiane a coordinare il salvataggio dei 108 migranti, i quali sarebbero poi dovuti essere portati in un porto sicuro e non in Libia, dall’altro risulta esserci una forte compromissione dei diritti soggettivi dei migrant ai quali non solo non è stato riconosciuto il diritto ad arrivare in Italia per formalizzare una richiesta di protezione internazionale, ma sono stati esposti anche al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti, oltre a non concedere loro il diritto di presentare un ricorso contro tale procedura illegittima.

Ma ancora una volta, lo Stato italiano, ha preferito anteporre le politiche sicuritarie al salvataggio di vite umane.

Nicholas Tomeo

Leave a Comment

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>