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Lotte sociali e manganello

Non basta la riprovazione per i fatti di Pisa. Occorre considerare che le lotte sociali costituiscono un elemento fondamentale nelle società democratiche sia perché permettono a chi ha meno voce e a chi ha meno potere di accrescere la propria presenza all’interno dello spazio pubblico, sia perché l’espressione del conflitto conferma il fatto che le società sono fatte da interessi, oltre che da punti di vista, non solo differenti, ma anche in contrasto tra loro

Andate a cercare i video disponibili sulle cariche e le manganellate della polizia nei riguardi di manifestanti nelle strade di Pisa del 23 febbraio[1]. Troverete la conferma del fatto che da diversi anni in Italia il conflitto sociale viene definito e gestito, molto spesso, da parte delle istituzioni di governo, e in particolare delle autorità di polizia, come un tema di ordine pubblico.

Il conflitto sociale è, invece, al contrario, un elemento fondamentale nelle società democratiche sia perché permette a chi ha meno voce e a chi ha meno potere sociale di accrescere la propria presenza all’interno dello spazio pubblico, sia perché l’espressione del conflitto sociale conferma il fatto che le società sono fatte da interessi, oltre che da punti di vista, non solo differenti, ma anche in contrasto tra loro. Questo contrasto non si esprime all’interno delle democrazie esclusivamente nel momento elettorale. Ma si esprime, come ha insegnato la più che secolare esperienza del movimento operaio e l’ormai secolare esperienza del movimento femminile e femminista, nello spazio pubblico, e quindi anche nelle strade, raggiungendo i luoghi di rappresentanza del potere politico, attraverso la forma del movimento sociale, quindi della presa di parola all’interno dello spazio pubblico, che poi diventa presa di parola nello spazio politico, il quale è più ampio dello spazio elettorale.

Come più volte lo studioso Franco Fortini ha evidenziato durante gli anni ‘80 e nei primi anni ’90 del ‘900, analizzando il modo in cui le istituzioni statali in Italia avevano gestito e definito le lotte sociali e politiche degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80, tutte ricomprese sotto la categoria del terrorismo, il conflitto sociale è diventato, dagli anni ‘80, sempre più un tema di ordine pubblico, quindi, da affrontare con la polizia, con le manganellate, con le cariche, nelle piazze. E da affrontare nella comunicazione pubblica e politica come un retaggio del passato, come un elemento antistorico.

Questa narrazione non solo va in contraddizione con le caratteristiche della democrazia, ma va, nella contingenza delle ultime settimane, anche in contraddizione con il modo in cui le forze di polizia e i rappresentanti delle istituzioni statali hanno definito e affrontato le mobilitazioni di una parte del mondo dell’agricoltura, del cosiddetto movimento dei trattori. Sono evidenti le modalità di definizione e gestione completamente contrapposte: verso il cosiddetto movimento dei trattori c’è stata la vicinanza istituzionale e una piena tolleranza da parte delle forze di polizia. Al contrario, verso alcune delle manifestazioni che si stanno avendo in questi giorni a sostegno della Palestina, del cessate il fuoco e del ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza e dai territori occupati della Cisgiordania la risposta è immediatamente repressiva.

È accaduto diverse volte negli ultimi anni che non appena un movimento sociale inizia, in fase embrionale, ad affacciarsi allo spazio pubblico, come, ad esempio, nel caso del movimento ecologista, in particolare nei riguardi di chi, imbrattando i vetri che proteggono le opere d’arte per richiamare l’attenzione sull’urgenza delle politiche di giustizia climatica, viene definito come eco-vandalo rischiando anni di galere. È accaduto, d’altronde, anche verso il movimento per la casa nei primi anni ‘10 del nostro secolo. E, quindi, la domanda che si pone, relativamente allo stato della democrazia in Italia in questo momento e della sua costituzione materiale, è la seguente: c’è spazio per il conflitto sociale e per l’organizzazione di movimenti sociali autonomi dai partiti rappresentati in Parlamento nell’attuale democrazia? Questa è in grado di entrare in relazione con queste forme del conflitto oppure è una democrazia ripiegata, che ha deciso di autolimitarsi e, quindi, di reprimere, da parte di chi esercita funzioni di governo, tutto ciò che ritiene incompatibile con le necessità della conservazione dell’ordine sociale dato? Se la risposta è la seconda – e, purtroppo, il modo in cui il conflitto sociale viene governato in Italia da almeno due decenni dà forza a questa seconda risposta – allora siamo di fronte a una crisi del contenuto democratico della democrazia stessa, che, seppure continua a esistere nelle sue forme e nelle sue procedure, non esiste più, o esiste sempre meno, nella sua sostanza politica: dunque, una democrazia ridotta ad amministrazione dell’esistente e incapace di entrare in relazione con i movimenti e con il conflitto sociale autonomo se non con la repressione.

Ovviamente, questa torsione – lunga almeno 30 anni, ma già iniziata 40 anni fa – deve preoccupare chi riconosce nella democrazia una conquista avvenuta anche attraverso il conflitto sociale e politico, motore dell’emancipazione del lavoro e delle donne. Le mobilitazioni in corso per la fine della guerra contro la popolazione palestinese e la fine delle colonie israeliane è un importante banco di prova per la democrazia e le possibilità del conflitto sociale in Italia.

[1]Scontri alle manifestazioni pro Palestina, David Parenzo mostra le immagini della Polizia che carica gli studenti (la7.it);

Cariche a Pisa: “Era ferita alla testa, non volevano far passare l’ambulanza” –

 

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La violenza della polizia italiana non è un’eccezione

di

“L’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sulla forza dei manganelli”, il comunicato del presidente della repubblica Sergio Mattarella sulle manganellate delle forze dell’ordine contro gli studenti a Pisa il 23 febbraio è chiaro e severo, ma anche inconsueto. Era dal 2001, cioè dal G8 di Genova, durante quella che è stata definita “la più grande violazione dei diritti umani dal dopoguerra”, che un presidente della repubblica non interveniva su fatti di questo tipo. Ma all’epoca Carlo Azeglio Ciampi aveva fatto appello ai manifestanti perché cessassero le violenze.

Questa volta, invece, Mattarella ha condannato la gestione della piazza da parte delle forze di polizia. E poi c’è un passo in più nel comunicato di Mattarella: il richiamo esplicito ai responsabili politici, cioè al ministro dell’interno e al governo. “Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”, ha concluso Mattarella, inasprendo la condanna, anche politica, della violenza delle forze dell’ordine.

Ma se è inconsueta una posizione così esplicita da parte del presidente della repubblica, non si può dire lo stesso delle violenze e degli abusi da parte delle forze dell’ordine italiane, soprattutto in certi contesti: le manifestazioni degli studenti e in generale dei gruppi legati alla sinistra, le carceri, le questure, gli stadi o i centri di detenzione per il rimpatrio degli stranieri. Situazioni cioè in cui esiste uno squilibrio di potere tra chi esercita la forza e chi la subisce, spesso proprio nel momento in cui viene espresso un dissenso.

Solo due settimane fa nel centro di detenzione per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano gli agenti hanno manganellato degli stranieri che protestavano nudi e sotto la pioggia contro le condizioni inumane del centro, che è già oggetto di un’inchiesta da parte della magistratura. Anche in quel caso le proteste erano pacifiche e in più le persone erano in una condizione di privazione della libertà personale, ma questo non ha impedito agli agenti di usare la forza.

“Con i detenuti i manganelli esprimono un fallimento”, si potrebbe dire, declinando la stessa frase di Mattarella.

Dopo il G8 di Genova nel 2001 molto è stato detto sulla cultura della violenza diffusa e perfino egemone tra le forze dell’ordine italiane e sulle difficoltà di riformare questi corpi, che hanno osteggiato prima l’introduzione del reato di tortura in Italia (approvato solo nel 2017), quindi l’adozione di un codice identificativo per gli agenti di polizia in servizio, tuttora assente. Tra l’altro qualcuno ha fatto notare che il questore di Pisa è stato tra i responsabili dell’ordine pubblico proprio a Genova nel 2001.

Se è stato impossibile riformare le forze di polizia è stato a causa del corporativismo, una cultura che ha indotto i vertici dell’organizzazione a serrare le file di fronte all’operato di ogni agente che ha compiuto violazioni, anche nei casi più eclatanti ed evidenti. Ma è stata inattuabile anche per l’appoggio di tanti esponenti politici e di alcuni partiti come Fratelli d’Italia e Lega, che oggi sono al governo.

Dopo il monito di Mattarella, il leader della Lega Matteo Salvini ha difeso l’operato delle forze di polizia a Pisa. E anche la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha fatto intendere, con il suo silenzio, che il suo appoggio alle forze dell’ordine è immutato. D’altro canto Fratelli d’Italia, il partito di Meloni, ha presentato in questa legislatura un progetto di legge per abrogare il reato di tortura.

Può essere utile ricordare che i vertici delle forze dell’ordine, processati per i fatti di Genova nel 2001, hanno tutti fatto carriera nei dieci anni successivi al G8. Si dovrebbe riflettere anche sul fatto che sono stati reintegrati gli agenti della polizia penitenziaria sotto processo per le violenze e le torture perpetrate nel 2020 contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Sono indicatori che ci aiutano a capire quanto sia diffusa la cultura della violenza nelle forze dell’ordine e quanto sia stato difficile nel tempo provare a cambiarla: una mentalità che è emersa molto chiaramente nelle resistenze da parte del sistema a facilitare processi sulle responsabilità dei singoli agenti accusati di torture, abusi o omicidi nelle caserme italiane, o ai danni di persone che erano nelle mani dello stato come Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi o Aldo Bianzino.

La violenza delle forze di polizia contro gli studenti a Pisa non è un’eccezione ed è in continuità con molti avvenimenti del passato recente. Rassicura che il capo dello stato condanni l’uso dei manganelli e ribadisca quali siano i limiti stabiliti dalla costituzione per l’esercizio della violenza da parte delle forze dell’ordine. Probabilmente al Quirinale c’è qualche preoccupazione per la presidenza italiana del G7 e il vertice che si svolgerà in Italia a metà giugno, e che potrebbe essere scenario di nuove proteste e violenze. Ma stupirsi non serve: quella violenza è strutturale e ha una matrice riconoscibile e radicata, che negli ultimi vent’anni non si è voluto estirpare.

 

 

 

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