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L’inganno dell’ideologia carceraria

Caratteristica dei regimi reazionari è quella di ritenere che carcere e inasprimento “fisico” delle pene costituiscano il deterrente fondamentale per l’atto criminoso. È questo l’aspetto più odioso del giustizialismo

di Massimo Cacciari da La Stampa

Tutta la letteratura scientifica ha dimostrato da decenni che non esiste alcuna correlazione significativa tra pesantezza della pena, ivi compresa quella di morte, da una parte, e gravità e ampiezza dei comportamenti criminali, dall’altra. Che l’arcaica idea del “dente per dente, occhio per occhio” serva a meglio garantire la nostra sicurezza è forse retaggio delle zone più oscure del nostro cervello, ma non corrisponde in nulla alla realtà.

Il crimine ha cause complesse e diversissime, psicologiche, sociali, storiche. L’ultima cosa che il criminale considera è la pena cui va incontro (fuorché, forse, per i reati economici, nel caso in cui la pena incida profondamente sul patrimonio dell’interessato). Malgrado tali evidenze, questo è il tasto su cui il nostro Governo sembra abbia l’intenzione di insistere. Il diritto penale, diceva Simone Weil, ha sempre l’odore dell’inferno – ma invece di tentare di renderlo respirabile, gli spiriti reazionari amano esaltarne il tratto che più lo avvicina alla vendetta. La nostra civiltà giuridica ha sempre riconosciuto con realismo a volte spietato che è impossibile eliminarlo del tutto, e tuttavia non ha mai cessato di combatterlo. Già difficile è il compito del giudice, chiamato a condannare “al di là di ogni ragionevole dubbio” – quando poi le norme che è tenuto a seguire lo costringono a punizioni sempre più severe in relazione esclusivamente alla fattispecie di reato, tale compito si fa davvero tremendo. In fondo, una sola strada è stata proposta da giuristi, filosofi e politici non reazionari per “rimediare” a tale situazione: che la pena esprima essenzialmente una finalità “rieducativa”.

Le contraddizioni cui va incontro tale nobile intento sono, certo, immense, e anch’esse sono oggetto da tempo di una vasta letteratura scientifica. Non solo esso presuppone un “modello” di integrazione sociale che può fondarsi soltanto su norme e valori dello status quo, ma, se davvero si volesse informare al suo principio il sistema penale, ne deriverebbe logicamente che la stessa pena dovrebbe decidersi in base ai “successi” di volta in volta raggiunti nel corso del processo rieducativo. Nonostante tutto ciò, un pensiero davvero cosciente di quell’”odore di inferno” ha sempre insistito sull’idea di un diritto penale “minimo” e sulla pena non come vendetta e segregazione, ma risocializzazione del colpevole. Ebbene, perché il liberale dr. Nordio non esercita in questo senso le sue aspirazioni riformatrici? E invece di inneggiare a inutili inasprimenti della pena, non affronta il dramma della nostra situazione carceraria? Chi meglio di lui la conosce?

Tale situazione è semplicemente un’offesa alla lettera e allo spirito della Costituzione. Dunque, coloro che nulla o poco fanno per trasformarla radicalmente commettono un reato nei confronti della nostra Legge fondamentale. E dovrebbero essere chiamati a risponderne. Le nostre carceri (fuorché casi eccezionali, in gran parte dovuti alla provvidenziale presenza di eccezionali funzionari, estranei in toto all’ideologia giustizialistica) sono istituti criminogeni, non rieducativi. Per tentare di svolgere la funzione che la Costituzione assegna loro non solo dovrebbero garantire standard residenziali civili, non solo organizzare con sistematicità al proprio interno attività lavorative e culturali, ma curare anche il reinserimento sociale a pena scontata. Allora e soltanto allora il carcere potrebbe diventare un mezzo per aumentare la sicurezza che la comunità richiede.

Nella situazione attuale dovremmo piuttosto dire che il prolungamento della pena, e cioè della detenzione nelle patrie galere, è valido strumento per l’educazione al crimine. Ma nessun ragionamento distoglierà il reazionario dalla sua ideologia carceraria. Poiché sa che essa, ahimè, corrisponde a pulsioni profonde del nostro essere, dalle quali nessuno è pienamente libero. E tali pulsioni si fanno quasi irresistibili in momenti di drammatica crisi economica e civile. Quando il disordine globale sembra dilagare inarrestabile, quando crescono disuguaglianze e ingiustizie e “del doman non v’è certezza” la demagogia ha sempre trovato terreno fertile nel promettere di garantire sicurezza sorvegliando e punendo.

Sorvegliare magari con muraglie le frontiere dallo straniero nemico. Infliggere pene, dolorose quanto possibile, a chi infrange la legge. Nell’un caso come nell’altro, non discutere cause e non preoccuparsi degli effetti. Demagogia è espressione del tutto sbagliata: il demagogo non guida ma segue, obbedisce le peggiori passioni della massa di cui tutti siamo parti. Obbedisce alle sue pretese di semplificare i problemi più complessi, di tagliare i nodi con l’accetta invece di scioglierli. Il demagogo illude e inganna, ma nel suo inganno è proprio l’opposto del “duce”. Egli è in realtà il peggior demo-filo. La nostra sicurezza, quella vera di cui abbiamo bisogno, verrà da chi saprà stabilire efficaci norme per il passaggio delle frontiere e per rendere la più breve e produttiva possibile la permanenza in galera. Linea esattamente opposta a quella del nostro Governo presidenzial-decisionista.

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