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L’incredibile storia di un ragazzo romano tra furia giudiziaria e angherie in carcere

È detenuto a Civitavecchia, ha una tossicodipendenza da cocaina, ma non ha mai spacciato. L’arresto riguarda fatti pregressi per cui è già stato condannato nel 2017. Gli hanno negato il colloquio con la sorella ed è stato picchiato a sangue dal suo compagno di cella, che aveva già segnalato per comportamenti anomali

E’ alla sua prima carcerazione in custodia cautelare, teoricamente non dovrebbe nemmeno starci ed è stato picchiato selvaggiamente da un suo compagno di cella ( provocandogli ecchimosi su tutto il corpo e cinque punti di sutura al cranio) nonostante avesse segnalato che mostrava segni evidenti di squilibri. Un caso segnalato a Rita Bernardini del Partito Radicale dall’avvocato Davide Vigna che desta stupore, perché emergerebbero delle vere e proprie ingiustizie nei confronti del detenuto su diversi profili. Si tratta di un uomo, romano, da anni affetto di tossicodipendenza da cocaina. Non è uno spacciatore, ma amava condividere l’uso della sostanza stupefacente con alcuni suoi amici e la cedeva la maggior parte delle volte a titolo gratuito, quindi non per trarne profitto.

Per la legge è sempre spaccio, ma non di grave entità visto che, appunto, non è la sua fonte di guadagno. Anche perché lavorava, verbo utilizzato al passato visto che dopo l’arresto ha perso il lavoro.

UNA CUSTODIA CAUTELARE DA EVITARE

Viene tratto in arresto il 6 febbraio scorso e rinchiuso nel carcere di Civitavecchia, ed è la sua prima esperienza di custodia cautelare. Ma i fatti sono precedenti a una condanna del 2017 con la sospensione condizionale della pena. Non solo, questi fatti emergono proprio dall’indagine condotta in quel contesto, due anni fa. Perché applicargli ora la misura cautelare più grave? La sua storia è semplice, dice l’avvocato Davide Vigna a Il Dubbio. «Lui era già stato arrestato in flagranza nel 2017- spiega l’avvocato – e l’abbiamo capito ora come avvenne: all’epoca era stato intercettato un suo amico e gli inquirenti captarono una telefonata in cui il mio assistito avrebbe dovuto cedergli della cocaina: alla cessione i carabinieri lo arrestavano in flagranza, però, siccome si trattava di quantitativo non elevato e lui era anche consumatore, il giudice lo mandò agli arresti domiciliari fin da subito e poi gli sostituì la misura con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria».

L’uomo aveva anche ammesso il fatto che gli veniva contestato e cosi, scelto il rito abbreviato, ilgiudice lo condannò con la concessione della sospensione condizionale della pena, riconoscendogli il comma V dell’art. 73 dpr 309/ 90, quello per la lieve entità del fatto. Precisamente si trattava di una sola cessione di cocaina: il giudice lo condannò a 2 anni con pena sospesa, perché emerse nel giudizio che la sua condotta era inserita in un contesto di uso personale, come venne anche provato dalle risultanze degli appostamenti dei carabinieri, che lo avevano arrestato. Era il 2017.

A febbraio di quest’anno, viene arrestato in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare. Riferisce sempre l’avvocato Davide Vigna: «Mi leggo l’ordinanza e apprendo che erano stati acquisiti dei tabulati sulla sua utenza telefonica a seguito dell’arresto e che riferiscono pertanto di fatti che erano tutti avvenuti in precedenza rispetto all’arresto». Dai tabulati, prosegue l’avvocato, emergeva che i suoi acquirenti erano persone che lo conoscevano, degli amici, e, sapendo che era un consumatore e che aveva la disponibilità della cocaina, se la facevano cedere per lo più a titolo gratuito e il più delle volte la consumavano insieme a lui. È evidente che l’ordinanza riguarda fatti pregressi a quelli per cui l’uomo già è stato condannato ed «è pacifico che si tratti di fatti che andrebbero in continuazione con quelli della sentenza del 2017», osserva l’avvocato.

Si fa riferimento all’istituto del reato continuato, il quale prevede che, per i fatti analoghi commessi

in uno stesso periodo in quello che è definito “il medesimo disegno criminoso”, la pena complessiva sia calcolata prevedendo quella per il reato più grave aumentata con una somma ritenuta di equità dal giudice. Per questo motivo, «i fatti per cui è stato oggi arrestato non andrebbero ad incidere neanche tanto sulla pena dei 2 anni con la continuazione», ribadisce l’avvocato Vigna. In sostanza anche quelli di questa ordinanza che l’hanno condotto in carcere, non possono che essere anch’essi di lieve entità, quelli del comma V dell’art 73 del dpr 309/ 90: ma nell’ordinanza attuale c’è scritto che non sono concedibili gli arresti domiciliari perché la sua abitazione è luogo di spaccio. Ciò, a fronte di un dato che corre in versante opposto: l’uomo, dal 2017 non ha più commesso reati, ma non solo: quella casa è stata venduta, tant’è che egli ha trascorso quest’ultimo anno in Spagna, partito dopo la sentenza da uomo libero, e quando i Carabinieri andarono a cercarlo, in quella casa ci trovarono non lui ma un’altra famiglia.

IL PESTAGGIO E IL COLLOQUIO VIETATO

Lunedì scorso uno degli avvocati dello studio Vigna è andato a fare un colloquio con l’assistito, ma la scena che si è ritrovata davanti agli occhi è stata scioccante: l’uomo si presentava con indosso un collare ortopedico, plurime ecchimosi di colore viola intenso e escoriazioni in tutto il corpo, una ferita in testa nella quale pare siano stati applicati 5 punti di sutura, oltreché visibilmente stravolto. Cosa gli era accaduto?

La settimana precedente è stato picchiato dal compagno di cella appena era rientrato dal passeggio. Gli ha scaraventato contro lo sgabello di legno posto all’interno della cella , per poi saltargli addosso mentre era caduto a terra per il colpo subito e ha continuato a riempirlo di calci, pugni e graffi sino all’intervento dell’agente di polizia penitenziaria che a sua volta è stato aggredito del detenuto. Eppure l’aggressore già era stato segnalato dall’uomo, in quanto mostrava fin da subito segnali di squilibrio. Appena l’hanno messo in cella, dava testate al muro, lo fissava e urlava. Quando è accaduto il pestaggio non si è avuta alcuna comunicazione ufficiale da parte delle autorità alle quali lo stesso è affidato in custodia. Grazie ad una chiamata anonima effettuata dal carcere, l’avvocato si è allarmato ed è andato a trovare il suo assistito lunedì scorso. Senza quella chiamata, nessuno se ne sarebbe accorto visto che non era in programma nessuna visita.

«Faremo causa civile – spiega l’avvocato Vigna – perché c’è un obbligo di protezione, visto il principio costituzionale di tutela dei diritti inviolabili della persona anche in regime di detenzione». A questo si aggiunge il fatto che per giorni il carcere non ha dato l’autorizzazione alla sorella del detenuto di farle effettuare un colloquio, nonostante che nell’ordinanza applicativa non erano state disposte alcune limitazioni. Ma non solo. Grazie alla sollecitazione dell’avvocato, la cancelleria del GIP aveva inoltrato al carcere l’autorizzazione esplicita di fare i colloqui.

Giovedì scorso, la cancelleria aveva mandato una pec con l’ovvia comunicazione del nulla osta ai colloqui: tuttavia, anche il giorno dopo, avevano negato alla sorella di fare il colloquio. Solo dopo, una volta riferito che la cancelleria ha detto che ha mandato da tempo la pec, gli agenti le hanno dato il permesso con tanto di scuse. Ora due sono le istanze per chiedere la scarcerazione e la misura alternativa. A breve il responso.

Damiano Aliprandi

da il dubbio

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