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Il Governo della paura e l’alibi dell’insicurezza

Non ci sono solo premierato assoluto, deportazioni di migranti e precettazioni. C’è, a fianco, un nuovo disegno di legge che prevede la criminalizzazione della marginalità sociale, l’incremento della repressione del dissenso e del conflitto, il potenziamento e la blindatura del carcere e l’aumento dei poteri delle polizie. Non per dare più sicurezza ai cittadini ma per aprire la strada a una svolta autoritaria.

di Livio Pepino da Volere la luna

Siamo stati facili profeti nel denunciare il marchio di fabbrica del Governo e della maggioranza in tema di controllo dei fenomeni sociali, della protesta e del dissenso. Lo abbiamo fatto analizzando i suoi primi passi e, poi, la successiva navigazione, che approda, ora, all’ennesimo disegno di legge in tema di “sicurezza”.

Quattro le direttrici fondamentali del disegno di legge.

C’è, anzitutto una crescente criminalizzazione della marginalità sociale, in rigorosa continuità con il recente passato, a cominciare dal decreto legge n. 113/2018, noto come decreto Salvini. Fanno capo a questo filone l’aumento della pena (da 2 a 7 anni di reclusione) per chi, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o impedisce il rientro nel medesimo immobile da parte del proprietario (dove per violenza si intende anche solo la rottura di una serratura), con estensione della punibilità anche a chi “si intromette o coopera” nell’occupazione; l’inasprimento delle pene per l’accattonaggio e l’innalzamento da 14 a 16 anni dell’età dei minori il cui coinvolgimento in tale condotta è punibile; la previsione del cosiddetto DASPO ferroviario, che attribuisce al questore la possibilità di vietare l’accesso nelle stazioni dei treni e della metro e nei porti a chi è stato denunciato o condannato per reati contro la persona o il patrimonio.

Un secondo filone riguarda l’incremento della repressione del dissenso e del conflitto sociale. Ne fanno parte, oltre alla già citata stretta sull’occupazione di immobili (rivolta anche ai movimenti per la casa, considerati “cooperanti” degli autori materiali), l’estensione dell’illecito amministrativo di blocco stradale al blocco ferroviario e la sua generalizzata trasformazione in reato, punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni, «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…); l’introduzione di un’ipotesi aggravata di deturpamento e imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, punita in via ordinaria con la reclusione da 6 mesi a 1 anno e 6 mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro (e con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa fino a 12.000 euro in caso di recidiva); la previsione dell’aumento di pena di un terzo per la resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commesse in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria (e dunque, prevalentemente, nel corso di manifestazioni).

Ci sono, poi, il potenziamento e la blindatura del carcere (pur già oggi tornato a presenze giornaliere prossime a 60.000 e sempre più ingestibile). L’obiettivo è perseguito, da un lato, con i ricordati aumenti dei reati e delle pene e con la facoltatività (in luogo dell’attuale obbligatorietà) del rinvio dell’esecuzione della pena per donne incinte o madri di bambini fino a un anno di età (ipotesi modesta sotto il profilo quantitativo ma estremamente significativa sul versante culturale) e, dall’altro, con l’introduzione del delitto di rivolta in istituto penitenziario, sanzionato con pene da 2 a 8 anni per gli organizzatori e da 1 a 5 anni per chi vi partecipa (con la precisazione che la “rivolta” si può realizzare «mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite»: sic!), e di una specifica fattispecie delittuosa per chi istiga alla rivolta in carcere, anche dall’esterno, con scritte e messaggi diretti ai detenuti. [Superfluo dire che, a dimostrazione della sostanziale equivalenza tra carceri e centri per il rimpatrio degli stranieri irregolari, il reato è esteso, con lieve riduzione della pena, anche alle “rivolte” che si verificano in questi ultimi…].

Il disegno di legge, infine, aumenta i poteri e le tutele delle forze di polizia prevedendo, oltre alla già ricordata aggravante per i casi di violenza e resistenza nei confronti di appartenenti alle stesse, l’estensione della scriminante dell’uso legittimo delle armi e l’autorizzazione, per gli appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei Carabinieri, alla Guardia di finanza, al corpo degli agenti penitenziari e alle polizie municipali, a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio (così consentendo l’immissione in circolazione, potenzialmente, di circa 400.000 pistole in più delle attuali).

Il corpus normativo risultante da questi interventi, ove approvati dal Parlamento, avrebbe effetti imponenti nello spostamento dell’asse del sistema nella direzione di uno Stato di polizia.

Primo. Alcune delle norme avranno effetti pratici di grande rilievo (basti pensare alla dilatazione del carcere e della repressione del conflitto sociale), altre troveranno un’applicazione ridotta, ma tutte contribuiranno ad accrescere il senso di insicurezza e, conseguentemente, l’inimicizia sociale tra i cittadini. È la via del populismo penale che fa leva sul rancore sociale, prodotto dalla crisi e dall’acuirsi delle disuguaglianze, trasformandolo da sentimento da contenere con interventi culturali e politici appropriati in “valore” da salvaguardare a fronte di nemici che attentano alla tranquillità collettiva: anzitutto i migranti e i marginali (che – gli uni e gli altri – occupano indebitamente edifici o chiedono l’elemosina nelle strade) e, poi, i ribelli e i dissenzienti (con riferimento ai quali sono ritagliate sia fattispecie di reato come il blocco stradale e ferroviario e il deturpamento e l’imbrattamento di edifici pubblici che i previsti aggravamenti di pena, a cominciare da quelli per la resistenza a pubblico ufficiale). Tutto si tiene. E, del resto le “nuove” misure sono, in realtà, fotocopie di quelle introdotte a più riprese negli anni scorsi, con ulteriore crescita della penalità, in un crescendo potenzialmente senza fine (e senza effetto alcuno in termini di rassicurazione e coesione sociale).

Secondo. L’Italia, nonostante quanto abitualmente si dice, è uno dei paesi più sicuri d’Europa e ha tassi di criminalità in costante diminuzione (basti pensare agli omicidi volontari, calati dai 1476 del 1992 ai 314 dello scorso anno), mentre il maggior livello di insicurezza, in Occidente, sta, secondo tutte le rilevazioni, negli Stati Uniti d’America (paese che ha pene edittali elevatissime anche per reati bagatellari, se commessi da recidivi, e l’incredibile numero di 200.000 condannati all’ergastolo). Eppure questo disegno di legge si propone di aumentare il carcere (che già ha raddoppiato le presenze rispetto a trent’anni fa) e di renderlo più chiuso e impermeabile dall’esterno, in una logica di scontro permanente che sostituisce ogni progetto di reinserimento e inclusione sociale. Aumentare i reati, le pene e il carcere non serve a dare maggior sicurezza alla collettività ma contribuisce a creare, consapevolmente, una società divisa e pronta ad esplodere.

Terzo. Per governare la società, poi, si sposta ancora una volta l’asse verso gli apparati militari e le forze di polizia, cementando alleanze tradizionali della destra con i settori più corporativi e reazionari degli stessi. Anziché investire in formazione e dispositivi di tutela degli operatori, si aumentano le pene per i reati commessi nei loro confronti e si incentiva l’uso delle armi da parte loro. Il risultato sarà un incremento del “fai da te” repressivo e l’aumento delle armi in circolazione. Ancora una volta il modello è quello degli Stati Uniti: e poco importa se la maggior diffusione delle armi porta con sé – come accade, appunto, in America – un aumento esponenziale della violenza e, insieme, la crescita dell’insicurezza.

Quattro mesi fa scrivevamo che «oggi si sta operando un ulteriore salto di qualità attraverso la saldatura tra [il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale], l’attacco ai diritti civili e l’irrigidimento autoritario del sistema politico, secondo il modello praticato, in Europa, da Polonia e Ungheria. […] Non viviamo in uno Stato di polizia, ma siamo immersi in uno Stato diseguale e repressivo che si dilata a dismisura». Quel processo continua in maniera ossessiva, a copertura dell’incapacità di rispettare gli impegni elettorali (e alcune rivendicazioni tradizionali della destra sociale) in tema di economia e di condizioni di vita delle persone, e a fianco della manovra più liberista degli ultimi anni, prossima a una vera e propria macelleria sociale. In questo contesto l’insicurezza collettiva non è un effetto non voluto ma un obiettivo lucidamente perseguito, un alibi per irrigidimenti autoritari parallelamente messi in campo altri settori: dal progetto del premierato assoluto, al disegno di deportare ampie quote di migranti, fino all’attacco al diritto di sciopero , per limitarsi alle ultime tappe.

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