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Il colore dei manganelli

La repressione della protesta e le violenze di polizia in funzione di ordine pubblico non sono, nel nostro Paese, una novità. Ma le manganellate di Pisa di due settimane fa segnano un salto di qualità: per il clima politico circostante, per la copertura della politica, per la saldatura in atto tra Governo e apparati di sicurezza e per l’accanimento nei confronti di antifascisti e pacifisti. Guai a sottovalutarlo.

di Livio Pepino da Volere la Luna

La repressione del dissenso e della protesta e le violenze delle forze di polizia in funzione di ordine pubblico non sono certo, nel nostro Paese, una novità. Basti ricordare – come altre volte abbiamo detto  – che, nei 30 anni intercorsi tra il 1947 e il 1977, si sono contati ben 143 manifestanti uccisi nelle strade e nelle piazze e che, di essi, ben 109 si collocano tra il 1947 e il 1954, cioè negli anni del potenziamento degli apparati di polizia e della loro riorganizzazione come forza di pronto intervento militare (la cosiddetta “celere”), armata finanche con mitragliatrici. Il fenomeno ha avuto un andamento carsico e periodi di relativa tranquillità (il primo centro sinistra, dal 1963 al 1968, e gli ultimi due decenni del secolo scorso) si sono alternati con momenti particolarmente cruenti (come il 2001, prima a Napoli e poi a Genova): frutto, all’evidenza, di scelte politiche di vertice, a conferma del fatto – ricordato da R. Canosa nell’esergo dell’introduzione di La polizia in Italia dal 1945 a oggi (il Mulino, 1976) – che «la storia della polizia è sempre storia dei governi». In parallelo con le modalità degli interventi di polizia sono cambiati, nel tempo, anche i destinatari: ieri gli operai e i braccianti; oggi soprattutto gli “antagonisti”, gli studenti e gli attivisti per l’ambiente e il clima. Ma la violenza è rimasta e, in questo inizio di millennio, si è accentuata: non solo in Italia ma in tutto il pianeta, Occidente compreso, come rivela il Rapporto 2022-2023 di Amnesty International sui diritti umani e le proteste nel mondo, secondo cui «è stato fatto un uso illegale della forza nei confronti di manifestanti in 85 Stati».

Le cariche e le manganellate di Pisa e di Firenze, dunque, sono in qualche modo un déjà vu, pur ignorato dai più, anche nei confronti di ragazze e ragazzi giovanissimi senza alcun intento aggressivo (per un esempio, quasi fotocopia di quello pisano, accaduto a Torino il 15 gennaio 2022, Draghi regnante, cfr.  Tuttavia i fatti toscani segnano un salto di qualità particolarmente rilevante. Per una pluralità di motivi su cui, due settimane dopo, è opportuno, a mente fredda, riflettere.

Primo. Quei fatti si inseriscono in un contesto nel quale la repressione – nelle piazze, nei tribunali, nelle carceri, nei centri di detenzione per migranti – è diventata strumento ordinario di governo e alla pratica (ormai quasi una regola) dell’affidamento a un prefetto del dicastero dell’Interno si è affiancata la costruzione di un apparato normativo all’insegna del diritto penale del nemico. Nell’ultimo anno e poco più, il sistema penale si è arricchito, a partire dal decreto legge sui raves, di 22 nuove fattispecie di reato; le persone detenute hanno nuovamente superato la soglia dei 60mila (erano 60.924 il 29 febbraio scorso); i suicidi in carcere proseguono al ritmo di uno ogni due giorni; viene meno, con il moltiplicarsi delle misure di prevenzione applicate ad attivisti coinvolti in contestazioni lato sensu politiche, la riserva di giurisdizione per le limitazioni della libertà personale; si susseguono le proposte di inasprimenti di pena per l’occupazione di immobili, il blocco stradale e la resistenza e violenza in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza  e finanche l’introduzione di un Daspo teso a impedire la partecipazione a manifestazioni dei cosiddetti “antagonisti”. Si tratta, anche qui, di tendenze parzialmente preesistenti al governo della destra, ma il loro consolidamento e la loro estremizzazione sta imprimendo al sistema politico una curvatura marcatamente autoritaria.

Secondo. Le manganellate di Pisa e Firenze sono – per usare le parole del capo dello Stato – un fallimento delle istituzioni, ma c’è, a margine, un fatto ancora più grave. È quanto accaduto nei giorni successivi. Invece dell’ammissione che “qualcosa non ha funzionato” e di una (pur blanda) autocritica o anche solo di un imbarazzato (quanto significativo) silenzio, ci sono state, da parte del Governo e della maggioranza politica, una copertura totale e acritica dell’operato della polizia, la presa di distanza (nei fatti e, a volte, anche in maniera esplicita) dai richiami del presidente della Repubblica, la trasformazione mediatica del “pestaggio” (evidente in decine di immagini e filmati) in uno “scontro” tra manifestanti e forze dell’ordine (cfr. ), l’attribuzione della responsabilità dell’accaduto alla sinistra e ai manifestanti (sic!) colpevoli di essere scesi in piazza anziché stare a casa o a scuolaSuperfluo aggiungere che nessun provvedimento è stato adottato nei confronti dei responsabili dell’ordine pubblico, salvo il grottesco trasferimento, alla vigilia della pensione, di una funzionaria coinvolta marginalmente nella vicenda e trasformata in comodo capro espiatorio. La rivendicazione della violenza contro i manifestanti e l’ostentata impunità assicurata a chi ne è stato autore è un invito implicito a proseguire nella stessa strada e ricorda gli anni bui dell’avvento del fascismo.

Terzo. Un ulteriore elemento di inquietudine e preoccupazione, connesso con quello appena segnalato, è la sempre più netta saldatura del Governo e della maggioranza politica con settori delle forze dell’ordine e degli apparati militari. I segnali sono univoci. Il Governo promette l’ampliamento della scriminante del cosiddetto uso legittimo delle armi e l’autorizzazione, per gli appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei Carabinieri, alla Guardia di finanza, al corpo degli agenti penitenziari a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. E a ciò corrispondono, da un lato, il protagonismo – talora ai limiti della eversione – dei sindacati di polizia (con la sola eccezione del Silp), nel dettare scelte legislative come il già ricordato Daspo nei confronti degli “antagonisti” o nel pretendere di condizionare scelte di governo delle istituzioni (come quella, contestata in questi giorni a Torino, di “legalizzazione” di un centro sociale) e, dall’altro, l’assunzione di un ruolo politico di primo piano, anche in vista di prossime scadenze elettorali, di un generale dell’esercito rappresentativo dei settori più reazionari delle forze armate. L’incidenza di questi percorsi sulle dinamiche istituzionali e i conseguenti condizionamenti non sono certo poca cosa.

Quarto. Non è, infine, secondaria l’individuazione dei destinatari (almeno prevalenti) della repressione: essenzialmente gli antifascisti  e i manifestanti contro la guerra (in Ucraina e, ancor più, in Palestina). Si tratta di una individuazione illuminante e dal significato univoco, soprattutto nel momento in cui la presidente del Consiglio si spinge addirittura, nel comizio di chiusura della campagna elettorale sarda, a ironizzare sull’antifascismo come elemento qualificante di un progetto politico e autorevoli esponenti della Nato rompono l’incantesimo e prospettano apertamente la possibilità di un ingresso in guerra anche con propri soldati oltre che fornendo armi.

C’è quanto basta per cogliere il senso profondo delle manganellate di Pisa.

 

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