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1973-2023. Le parole di Allende: per il Cile e per noi

«Apparentemente possono dirci che siamo riformisti, ma le misure che abbiamo preso significano implicitamente che vogliamo fare la rivoluzione, cioè trasformare la nostra società, cioè costruire il socialismo» (Allende): è la via cilena al socialismo, stroncata nel sangue l’11 settembre 1973. Cinquant’anni dopo resta una grande lezione su tutti i problemi attuali.

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«Apparentemente possono dirci che siamo riformisti, ma le misure che abbiamo preso significano implicitamente che vogliamo fare la rivoluzione, cioè trasformare la nostra società, cioè costruire il socialismo» (Allende): è la via cilena al socialismo, stroncata nel sangue l’11 settembre 1973.

Non è facile ricordare oggi, dopo cinquant’anni, quell’esperienza, specie per chi, come chi scrive, non ha competenze specifiche, non ha respirato l’aria di quei giorni, anche se avverte forte la spinta a non tacere, perché sente il Cile di Allende come momento di speranza e la sua tragica fine con rabbia e sofferenza. Provo quindi semplicemente a proporre qualche breve pensiero, attraverso le parole di Allende.

Primo. La grande questione: riforma o rivoluzione? e in particolare la domanda: è possibile una “riforma rivoluzionaria”? Allende, quando obietta a Regis Debray sul fatto che in Cile «la democrazia borghese è rimasta intatta» e «lei ha il potere esecutivo», afferma: «abbiamo detto che avremmo approfittato di alcuni aspetti della attuale costituzione per aprire la strada alla nuova costituzione, alla costituzione del popolo» (S. Allende, La via cilena, Conversazione con Regis Debray, Feltrinelli, Milano, 1971). Le parole sono suffragate da passi concreti: riforma agraria, nazionalizzazione delle miniere di rame e di industrie, incremento delle tutele sociali, ovvero prime forme di proprietà sociale e pianificazione. È un uso, come nota Debray, della legalità borghese «contro la borghesia stessa»? Allende non scioglie il dilemma “riforma” o “rivoluzione”, ma sottolinea il legame fra la via scelta e la realtà cilena, nel contempo affermando che la lotta rivoluzionaria «può, d’accordo con la realtà di ciascun paese, trovare la sua via nel focolaio insurrezionale, nel braccio armato, nell’esercito del popolo, nell’insurrezione, ma anche nella via elettorale». Che fosse una via sul cammino dell’emancipazione, lo dimostra il golpe e la ferocia della dittatura di Pinochet.

Secondo. È possibile azzardare un parallellismo con il contesto italiano? La via cilena al socialismo che vede l’adozione di riforme sociali radicali all’interno di una democrazia borghese ha qualcosa in comune con la “rivoluzione promessa” della nostra Costituzione, con la lettura come “democrazia progressiva”? È un parallelismo anche “in negativo”: come non pensare agli eventi oscuri che attraversano l’Italia di quegli anni, fra strategia della tensione, piani e strutture eversive, omicidi (la loggia massonica di Gelli, il “Piano Solo”, Gladio, il golpe Borghese, Moro)? Poi golpe violento non è stato, ma la rivoluzione passiva ha neutralizzato la Costituzione e la cappa del TINA thatcheriano ha soffocato le possibilità di trasformazione ed oggi pensiero unico omologante e repressione giudiziaria tentano di sterilizzare ogni forma di dissenso.

Terzo. Il golpe di Pinochet evoca la dottrina Monroe (1823) ma, oltre a rivendicare il controllo del “cortile di casa”, è un brutale segnale in sé al conflitto sociale, a tutti coloro che in vario modo stavano aprendo fratture nel dominio del capitalismo. Sul piano economico, il 1973 è l’anno dell’abbandono del sistema di Bretton Woods, seguono gli anni Ottanta della Thatcher e Reagan e l’affermazione dell’egemonia neoliberista. Con il golpe in Cile prende avvio la sperimentazione neoliberista dei Chicago Boys: si avvia un’inversione di rotta rispetto alle speranze di una trasformazione nel segno dell’emancipazione e dell’uguaglianza.

Quarto. Allende è “capo”, in una forma di governo presidenzialista; potrebbe definirsi un esempio di quello che Gramsci chiamava il “cesarismo progressivo”? Negli scritti di Allende si legge della consapevolezza dei rischi del caudillismo: «il processo cileno non è né paternalistico né carismatico […]. Non sono né un messia né un caudillo. Sappiamo bene che il potere popolare nasce dalla base»; «pensare che sia una personalità a fare la storia è una credenza borghese». Pensiamoci oggi, quando di fronte abbiamo un cesarismo regressivo e un popolo narcotizzato.

Il richiamo all’importanza dei comitati di base e delle cinghie di trasmissione (partiti, sindacati, organizzazioni di massa), al ruolo centrale del «popolo cosciente», «un popolo unito, un popolo consapevole dei suoi compiti storici» (Allende), ci indica ancora la via: la necessità di ripartire dal basso, da quel lavoro «lungo e paziente» (Engels) che crea la consapevolezza; con la Costituzione che può essere un programma unificante dal quale muovere. Adelante.

da Volere la Luna

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