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A proposito di violenze e crimini di membri delle polizie

Intervista di Dario Sabaghi al Professore Salvatore Palidda

I comportamenti delle forze dell’ordine nei riguardi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e altre persone morte in una condizione di limitazione della libertà personale, sono da attribuirsi a comportamenti isolati deviati o fanno parte di un modus operandi, ancorché taciuto, insito nelle forze dell’ordine italiane?

Le pratiche di tutte le polizie (anche di quelle locali) sono sempre caratterizzate dalla coesistenza di gestione pacifiche e gestione violenta, di autoritarismo e democrazia. La discrezionalità insita nel potere accordato alle polizie (come a qualsiasi potere) può facilmente scivolare nel libero arbitrio sino alle torture e all’assassinio. In una stessa città, nello stesso momento e in due luoghi continui è possibile assistere a pratiche delle polizie paternalistiche, pacifiche o persino antirazziste e altrove alla violenza e ad atti criminali sempre da parte di membri delle polizie. Ciò vale per tutte le polizie e quindi anche per quelle italiane. Nei ranghi delle polizie ci sono persone non diverse dai “comuni mortali”; ma nelle congiunture di deriva a destra (anche da parte di ex-sinistra) il reclutamento in tali ranghi favorisce persone animate da mentalità e comportamenti violenti. I casi Aldovrandi, Cucchi, Uva e decine di altri sono in realtà simili a centinaia di casi di cui non si è avuto notizia perché riguardano immigrati senza permesso di soggiorno o marginali e a volte sono scoperti dopo e classificati come conseguenze di incidenti o di violenze in group (è per esempio il caso di prostitute straniere trovate morte). L’escalation del sicuritarismo e della tolleranza zero soprattutto a partire dal 1990 ha provocato l’aumento delle violenze poliziesche anche da parte di membri delle polizie locali in Italia come in altri paesi. Tale escalation si situa nella cosiddetta congiuntura delle guerre permanenti agli “stati canaglia” e al terrorismo, ossia nel processo di conversione militaresca delle polizie e di conversione poliziesca dei militari (sempre più spesso sono impiegati nel controllo del territorio spesso dopo aver fatto l’esperienza di missioni militari in teatri di guerra). La legittimazione nella cosiddetta opinione pubblica dei comportamenti violenti delle polizie è stata sugellata dalla larga maggioranza dei media in nome della guerra permanente al nemico di turno che minaccerebbe la pace sociale, la morale, il decoro e la democrazia, nemico che se non il rom o l’immigrato è il tossicodipendente o persino il barbone. È in virtù di tale legittimazione che i membri delle polizie con vocazione da rambo si sentono autorizzati a praticare ogni violenza cioè ogni crimine (e questo lo si è visto anche nel caso della “uno bianca”, della “panda nera” e altri ancora succedutesi dagli anni Ottanta in poi).

Secondo i Suoi studi, possiamo parlare di una “cultura” dell’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine nei confronti di privati cittadini? Se sì, può delineare quali sono le dinamiche sociologiche che le forze dell’ordine mettono in atto al fine di perpetuare tale condotta?

La cultura professionale è essenzialmente una sorta di sapere pragmatico, empirico che non-scritto. Il dirigente e l’agente delle polizie impara soprattutto nella pratica per affiancamento ai più anziani e ovviamente se ha già una vocazione al ricorso alla violenza e finisce in una cerchia di colleghi che esaltano questa tendenza, non fa che considerare del tutto normale, giusto e legittimo ogni comportamento criminale. Come per qualsiasi altro soggetto sociale, anche fra membri delle polizie è sempre l’appartenenza a una precisa cerchia professionale che alimenta il riconoscimento sociale e morale (ciò che “fa sentire nel giusto”) (rif. a Simmel, Goffman e H. S. Becker). Tale cerchia professionale può anche intrecciarsi con altre simili anche con “cittadini zelanti” o familiari o vicini di casa o amici di palestra, di discoteca o di gruppi sportivi. Ovviamente in tale cultura c’è l’esaltazione della virilità che si accompagna al sessismo e al razzismo nonché a una ricodificazione del fascismo e del rambismo. È sbagliato pensare che “le forze dell’ordine mettano in atto certe dinamiche al fine di perpetuare tale condotta”; si tratta sempre di comportamenti che si configurano comme “fatti occasionali” (“in quella situazione m’è venuto spontaneo mollargli un calcio in faccia … o sparargli …”; “dovevo difendere me e i miei colleghi …”). In realtà in diversi casi si approda addirittura alla consacrazione dell’occasionalità: si pensi ai vigili urbani di Parma che torturano il giovane Bonsu e si fanno anche la foto con la vittima come una sorta di trofeo al pari dei torturatori di Abou Ghraib). C’è qui l’evidente segno del trionfo della legittimazione delle violenze che è suffragato dall’impunità che sistematicamente è accordata ai responsabili di tali crimini nei pochi casi in cui sono oggetto di una qualche indagine interna. Sta qui l’elemento più grave che è sempre stato il cardine principale della legittimazione indiscutibile dei comportamenti criminali da parte di membri delle polizie. Non esistono statistiche sui reati commessi da tali membri e non c’è alcuna trasparenza sulle rare indagini interne che comunque quasi mai conducono alla radiazione e punizione penale del colpevole. Questa impunità è garantita dai vertici che in tal modo sono sempre rispettati da tutti ed è supportata dai sindacati delle polizie come una delle principali attività (“è sempre meglio essere iscritto a un sindacato per avere le spalle coperte in caso di qualche incidente …”). Da una semplice inchiesta fra alcuni sindacalisti si sa che il numero dei membri della polizia di stato oggetti di indagini interne per diversi tipi di reato (amministrativo e/o penale) permette di stimare che il tasso di criminalità nei ranghi delle polizie è circa 9-10 volte superiore a quello fra gli adulti maschi di 18-65 anni di tutta la popolazione italiana. Da notare che fra i parlamentari di certe legislature tale tasso è stato ancora più alto e anche questo spiega perché il potere politico non abbia mai osato istituire un qualche controllo trasparente dentro i ranghi delle polizie. A queste è sempre stato accordata piena autonomia di gestione interna in cambio di piena fedeltà al potere politico (una sorta di “ci si copre a vicenda”). In altre parole, gli illegalismi e addirittura i crimini commessi da membri delle polizie sono tollerati innanzitutto perché ciò permette la tolleranza di crimini anche ben più gravi da parte dei vertici del potere nonché delle lobby (riferimento a Foucault).

Quali sono le misure che bisognerebbe adottare dal punto di vista politico per combattere, o quanto meno arginare, l’abuso di potere delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini? E ci sono lacune evidenti di selezione e formazione dei membri delle forze dell’ordine? Se sì, quali sono?

Come ho sempre proposto se si volesse implementare un dispositivo di effettivo controllo democratico occorrerebbe istituire un’autorità assolutamente indipendente (composta da persone di provato integerrimo rispetto rigoroso delle norme dello stato di diritto democratico) che abbia facoltà di controllo sulle diverse attività, luoghi e momenti della vita delle polizie. Questo dovrebbe portare anche all’abolizione dell’impunità di fatto dei reati di membri delle polizie (oggi indiscussa e indiscutibile) conferendo le indagini interne e le eventuali sanzioni a magistrati dei tribunali ordinari ma notoriamente esenti da connivenze o complicità o comuni intenti con sindacati e vertici delle polizie. Ovviamente tali misure sono possibili solo in un paese dove la maggioranza della popolazione ha acquisito una sensibilità effettivamente democratica.

Salvatore Palidda (https://unige-it.academia.edu/SalvatorePalidda/CurriculumVitae)

Riferimenti bibliografici

http://www.agenziax.it/wp-content/uploads/2013/03/conflitti-globali-5.pdf

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