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L’indigesta lezione di Genova

Il Molise è una piccola regione e sconta la sua ridotta dimensione con la scarsa attenzione dei media nazionali, eppure la curiosa conferenza tenuta l’altro giorno all’Università di Campobasso dal cosiddetto “Comandante Alfa” avrebbe meritato maggiore attenzione. L’oratore – chiamato dall’Ateneo e dall’Ordine dei giornalisti per un incontro dal titolo “Missioni di pace in contesti internazionali” – è un carabiniere dei corpi speciali e si è presentato in aula incappucciato per svolgere il suo intervento, durante il quale si è lasciato andare a una rivelatrice interpretazione dei cosiddetti “fatti di Genova” del 2001, passati alla storia (anche giudiziaria, sia italiana sia sovranazionale) per i gravissimi abusi compiuti dalle forze dell’ordine.

Marinella Ciamarra, giornalista presente alla conferenza, ha riferito (con un misto di imbarazzo e indignazione)  che secondo il “Comandante Alfa” le “giornate di Genova” non sono state la caporetto dello stato di diritto ormai registrata nei manuali di storia contemporanea, ma una vicenda nella quale violenza (dei manifestanti) ha chiamato violenza (di agenti e carabinieri) senza che le forze dell’ordine abbiano granché da rimproverarsi, nonostante – per dire – le torture praticate alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto o le decine e decine di arresti arbitrari compiuti nelle strade della città. Ciamarra parla anche di “toni spregiativi e denigratori” usati dal “Comandante Alfa” per Carlo Giuliani e la sua famiglia e riferisce che di fronte alle ragionevoli e informate obiezioni di un giornalista il co-fondatore del Gis (Gruppo di intervento speciale dei carabinieri) ha reagito intimandogli di vergognarsi.comandante-alfa-1[1].jpg

La disinvolta performance del relatore ha naturalmente suscitato reazioni sdegnate di addetti ai lavori e cittadini informati sui fatti, nonché la presa di distanza della stessa Università del Molise, ma non dev’essere liquidata come un’incresciosa quanto circoscritta gaffe, perché offre un’ulteriore spia di come il caso Genova sia stato vissuto ed elaborato in seno alle forze di sicurezza. Tre anni fa suscitò un putiferio il post su Facebook firmato da uno sconosciuto agente di polizia, Fabio Tortosa, che rivendicava la propria partecipazione al sanguinoso blitz alla Diaz al grido virtuale “Io ci rientrerei mille e mille volte”.

Stavolta si esprime un carabiniere di prima linea, chiamato a parlare in ateneo per le sue esperienze di frontiera e il prestigio che ne deriva in certi ambienti. L’esito della conferenza, diciamo così, non è stato pari alle attese, ma si conferma una sensazione che si è consolidata nel tempo e cioè che all’interno delle forze dell’ordine non ci sia mai stata una vera presa di coscienza sulla gravità delle condotte tenute da una fetta consistente degli agenti impegnati a Genova nel luglio del 2001.

A parziale discolpa degli agenti Tortosa e dei Comandanti Alfa va riconosciuto che compiere un autentico percorso di autocritica è assai difficile se le strutture di appartenenza, a cominciare dai vertici istituzionali, mantengono una linea di sostanziale rigetto delle proprie colpe, arrivando a sfidare non solo la verità storica ma anche l’azione dell’autorità giudiziaria.

Nell’estate scorsa suscitò grande attenzione un’intervista con il nuovo capo della polizia Franco Gabrielli (non coinvolto a suo tempo in alcun modo nei fatti di Genova) uscita sul quotidiano la Repubblica. Le parole di Gabrielli sulla tortura praticata a Genova da numerosi agenti su cittadini inermi furono accolte come una specie di rivoluzione (in realtà erano limitate a Bolzaneto, escludendo inopinatamente la Diaz) . Al sottoscritto quell’intervista sembrò parziale e piuttosto reticente, ma il consenso per Gabrielli fu generalizzato, come se una grande svolta fosse in arrivo o addirittura già compiuta.

DIAZ-3[1].jpgIl caso del “Comandante Alfa” ci riporta alla realtà: la sensazione è che le sue opinioni siano ampiamente condivise in seno alle forze dell’ordine e che vicende recenti, come il rientro in polizia e in posizioni di prestigio di alcuni dei condannati nel processo Diaz, siano per chi lavora nei vari corpi di sicurezza una conferma della scelta compiuta fin dal 2001 dai vertici degli apparati, una scelta di sostanziale rifiuto dell’autocritica e dello stesso esame di legalità spettante alla magistratura.

La polizia di stato, di fronte a critiche e obiezioni, ha giustificato il rientro e le nomine dei condannati nel processo Diaz come una sorta di obbligo di legge dovuto all’impossibilità tecnica di avviare provvedimenti disciplinari, poiché la procura di Genova avrebbe sottratto alla stessa polizia il compito di stabilire sospensioni e radiazioni, ma si tratta di un’interpretazione – in realtà una diceria sotto forma di cavillo  fatta circolare nei media – sempre smentita dai magistrati (vedi per tutte la precisazione firmata dalla procuratrice capo di Genova Valeria Fazio su la Repubblica del 23 luglio 2017), oltre che dal buon senso e soprattutto dal dispositivo delle condanne subite dall’Italia davanti alla Corte europea per i diritti umani.

La verità vera è che il nostro paese ha scelto di non eseguire per intero le sentenze della Corte europea, sapendo che i giudici di Strasburgo non dispongono del potere d’intervento all’interno dei singoli stati per imporre alcunché. L’Italia ha deciso d’essere inadempiente, almeno per la parte riguardante la sorte professionale dei condannati, e il prezzo da pagare è un’ulteriore caduta di credibilità: non bastano in questo campo le interviste e le promesse per recuperare terreno; a parlare sono i fatti.

La triste vicenda molisana è dunque figlia legittima di una cultura istituzionale impantanata in un miscuglio di autoreferenzialità e di sostanziale sfiducia nella prassi democratica: è una miscela che paralizza.

Lorenzo Guadagnucci

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