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Fase 2: il diritto emergenziale della guerra di classe

L’Italia è passata ieri (lunedì 4 maggio) per decreto del governo alla Fase 2 dello stato di emergenza da coronavirus. Con questo passaggio inizia a giungere qualche notizia dalla realtà effettiva dell’emergenza: l’Istat ha pubblicato proprio ieri le statistiche sull’incremento della mortalità nel paese dal 20 febbraio al 31 marzo ossia dal sopraggiungere del contagio al culmine della Fase 1.

In tale periodo la mortalità media è dunque cresciuta di quasi il 50% su base quinquennale (cioè in rapporto alla media di marzo 2015-2019), circa 25mila morti in più dei quali oltre 13mila quelli attribuiti direttamente al Covid-19. Il problema è che di questi 13mila decessi oltre 12mila, il 91 per cento, sono concentrati in 37 province del Nord Italia più Pesaro e Urbino: numeri coincidenti con impressionante esattezza alle zone definite ad alta diffusione del contagio. Ossia le province e i comuni coincidenti con le “zone rosse” e le “zone arancioni” che hanno preceduto l’avvio della Fase 1: ma coincidenti anche con zone ad alta concentrazione produttiva, dalla manifattura pesante alla leggera, dalla logistica all’industria agroalimentare, dal “terziario avanzato” ai servizi finanziari e commerciali. Così a Bergamo la mortalità risulta moltiplicata per quasi sei, a Cremona e a Lodi per quasi quattro, a Brescia e a Piacenza per quasi tre volte, a Parma per oltre due, eccetera. Dati che riassumono la più alta mortalità in assoluto da Coronavirus registrata in tutto il pianeta. Dati terrificanti a fronte del fatto che nel Centro-Sud, sottoposto all’azione di confinamento generalizzato imposta dalla decretazione della Fase 1 quando ancora i contagi fuori da quelle “zone rosse” e “zone arancioni” erano contenuti, la mortalità media è invece addirittura calata di quasi il 2 per cento: a Roma, per esempio, risulta minore financo di quasi il 10 per cento.

Non possono non tornare alle mente le parole e le azioni dei dirigenti della Giunta regionale lombarda nelle prime settimane di contagio per “non fermare la locomotiva dell’economia del paese”: o quelle della Giunta comunale meneghina all’insegna dello slogan “Milano non si ferma” (a Milano i morti sono aumentati del cento per cento). E non può non balzare all’occhio il peso di quel “modello lombardo” (da tempo non più solo lombardo) di gestione della sanità pubblica che tradotto praticamente ha significato devoluzione privatistica dei servizi sanitari di prossimità e delle prestazioni tecnico-specialistiche, taglio orizzontale dei medici di base, fiera della speculazione sulle RSA – rivelatesi dentro e intorno al triangolo settentrionale del contagio veri e propri luoghi dell’orrore con decessi di massa delle persone anziane ospitate.

In questo contesto, mentre continuano ad essere in agguato nel calendario parlamentare dispositivi legislativi trasversalmente proposti dalla maggioranza piddina e pentastellata e dall’opposizione di destra per liberare da ogni responsabilità giuridica nella gestione dell’emergenza imprenditori dei servizi sanitari e assistenziali esternalizzati e rappresentanti istituzionali, è giunto ieri il diktat del nuovo presidente della Confindustria: via Corriere della Sera e poi via la7, la televisione dello stesso editore che ha rilevato la storica testata del patto di sindacato del capitale finanziario milanese e della sua egemonia sulla borghesia italiana, Cairo, il presidente Bonomi ha dato un ultimatum alla politica riassumibile in tre punti.

Primo: le pur misere misure di sostegno al lavoro e al non lavoro, comprese le casse in deroga ancora in gran parte attese dai lavoratori e quel reddito di emergenza annunciato ma tuttora nemmeno disposto dal governo, non vanno bene al padronato perché ledono la libertà d’impresa intesa come libertà di gestire al ribasso l’offerta di salario e vanno dunque ulteriormente contratte e limitate nel tempo, tanto quanto deve essere rimessa in questione la sospensione dei licenziamenti, di contro allo spauracchio del fallimento della aziende.

Due: l’erario deve sostenere le aziende stesse con finanziamenti a fondo perduto, senza alcuna “intromissione” pubblica nella gestione delle medesime, soprattutto senza alcuna ipotesi di scambio con le tutele contrattuali che anzi debbono essere subordinate allo stato di emergenza come usbergo del primato del maggiore profitto.

Tre: agitando il fantasma delle cause di lavoro e di un’impossibile (giuridicamente) onere della prova a carico degli imprenditori riguardo la loro innocenza dai contagi dei propri lavoratori, va garantita al capitalismo in generale una manleva da ogni responsabilità nell’emergenza primaria, quella che ha ammalato e ucciso le vite di chi si è trovato ancora una volta a dovere scegliere tra la fame e la sottomissione del lavoro al capitale, persino al rischio della morte.

Se si ha memoria del fatto che, significativamente, all’Ilva di Taranto durante questa pandemia si è ricorsi al licenziamento di chi denunciava le mancate condizioni di sicurezza, o si tiene presente che Fincantieri, industria pubblica del maggiore gruppo imprenditoriale italiano ossia la pubblica Leonardo ex Finmeccanica, ha a sua volta richiesto di godere della deroga alla restrizione della continuità produttiva ai comparti essenziali con la quale ben centonovantaduemila aziende italiane hanno fatto lavorare le loro maestranze in questi due mesi; se soprattutto si tiene presente che mentre qualsiasi cittadina o cittadino è multabile in base al giudizio inderogabile di un agente di pubblica sicurezza sui motivi di urgenza della sua deambulazione in una strada pubblica nessuna sanzione è invece stata prevista nel caso dell’accertamento dell’invalidità dell’uso della deroga stessa e che addirittura il maggiore sindacato italiano, la CGIL, ha appena una settimana fa rivendicato come una vittoria la previsione solo d’ora in avanti della sospensione della produzione nel medesimo caso di accertamento negativo: si capisce allora quanto sia stato falsato un dibattito che ha separato questione sociale e questione dei diritti e delle libertà sospesi nell’eccezione dello stato di emergenza.

Esse sono invece strettamente correlate: e lo sono, come si vede, sulla generalità dei rapporti sociali sottoposti a una ulteriore pressione della classe dominante, non solo in quello specchio rovesciato del privilegio di classe che è il sistema carcerario e la sua estensione all’apartheid di stato ed europea nei confronti delle persone migranti. E questo al cospetto di un convitato di pietra partecipe: quell’ordine giudiziario che nella specificità italiana, invece di agire quale parte di una separazione dei poteri che dovrebbe fungere da contrappeso alla decisione politica necessario alla riproduzione del primato della Costituzione, è fatto agire da lunghi anni di deriva verso lo stato di sicurezza come soggetto appunto partecipe della girurisdizione emergenziale, ossia precisamente della decisione: fuori dunque da qualsiasi controllo democratico.

Da ora in poi, malgrado il silenzio quando non l’apologia del meno peggio governista in cui sembra caduto quasi unanimemente in questa circostanza il costituzionalismo democratico, si vedrà molto più chiaramente, temiamo, come le ultime vestigia formali delle garanzie costituzionali (ossia del compromesso sociale sulle ceneri del fascismo e sull’onda della guerra di liberazione) siano state ulteriormente sottoposte dalla gestione di questa emergenza a un vero e proprio stress test: dal quale difficilmente risulteranno ribadite, se non come una contraddizione ridotta a maschera paradossale del diritto del nemico di classe. A meno che proprio il conflitto sociale non si incarichi di restituire un altro senso alla politica.

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