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Dalla Tolleranza Zero al Decoro

Mi è stato chiesto di parlare della situazione statunitense, che è il contesto di cui mi occupo da diversi anni; credo tuttavia che abbia senso prima di tutto introdurre brevemente il tema del decoro—e più in generale della sicurezza urbana—per come questo è stato declinato in Italia a partire dagli anni Novanta. È infatti in quegli anni che si sviluppa, soprattutto su iniziativa di alcuni criminologi di orientamento critico, l’idea di proporre una riflessione sulla sicurezza urbana che da una parte “prendesse sul serio” le paure dei cittadini, ma che dall’altra fosse alternativa alle proposte della destra. Si trattava di riflessioni tese a proporre un modello di sicurezza urbana declinato in particolare a livello locale. É in questo contesto che si sviluppano in Italia le cosiddette politiche locali di “nuova prevenzione”, e in particolare progetti come Città Sicure in Emilia Romagna—un programma di ricerca e azione sulla sicurezza urbana animato dal compianto criminologo critico italiano Massimo Pavarini. Sulla scia di analisi sul paradigma di community policing (polizia di comunità) provenienti soprattutto dagli Stati Uniti, si proponeva di intervenire sul crescente “sentimento di insicurezza” dei cittadini; quel sentimento si andava manifestando negli anni Novanta soprattutto nella forma di mobilitazioni di tipo vigilantistico e securitario, per esempio attraverso la formazione di comitati per la sicurezza e contro il degrado—in particolare nelle grandi città postindustriali come Genova, Torino e Milano. I criminologi impegnati sul terreno delle politiche locali di sicurezza immaginavano risposte non tanto punitive quanto piuttosto preventive, a questi bisogni di sicurezza spesso amplificati dai mass media dominanti e strumentalizzati dai politici di turno. Ad avviso di questi criminologi “realisti”, si trattava di mobilitazioni che esprimevano un reale bisogno di sicurezza, al quale era necessario fornire una risposta alternativa al crescente populismo punitivo della destra, declinato in quegli anni soprattutto in chiave razzista e xenofoba dalla Lega Nord.

Elemento caratterizzante di questo approccio alternativo alla sicurezza urbana, che faceva leva su concetti come il degrado, il decoro e le “inciviltà urbane”, era che si potesse ridurre il senso di insicurezza dei cittadini anche senza necessariamente influire in maniera significativa sulle dinamiche di vittimizzazione e di effettiva esposizione al “rischio criminale”. La letteratura sociologica dominante sulla paura della criminalità ha evidenziato come il senso di insicurezza urbana sia relativamente indipendente dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma sia spesso legato a percezioni di disordine, caos, e degrado. Sulla scia di queste ipotesi, emergeva dunque negli anni Novanta l’idea che fosse necessario da parte degli organi di governo delle città farsi carico di questo sentimento di insicurezza mediante l’adozione di politiche locali che incidessero sulle cosiddette “inciviltà” urbane, ovvero su comportamenti che anche senza integrare fattispecie criminali potevano tuttavia generare sentimenti di paura e insicurezza, soprattutto in determinate categorie di cittadini ritenuti particolarmente vulnerabili, come donne e anziani. L’insistenza sul decoro e sulla qualità della vita rappresentava dunque un tentativo di rassicurare una parte della popolazione senza influire sulle dinamiche di produzione della criminalità stessa.

Pur avendo alcuni meriti—per esempio l’idea che la “sinistra” accademica e politica dovesse farsi carico di questioni come la sicurezza urbana, la paura della criminalità, e più in generale la questione criminale, tradizionalmente monopolizzate dalla “destra” populista—dal mio punto di vista quell’ipotesi è drammaticamente fallita. Le politiche di riduzione dell’insicurezza basate su nozioni restrittive di decoro e di civiltà urbana producono effetti paradossali, diametralmente opposti a quelli auspicati da coloro che le avevano sostenute da una prospettiva progressista. Tanto in Italia quanto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Francia—giusto per portare alcuni esempi—le politiche di rassicurazione dell’opinione pubblica fondate sul cosiddetto disordine urbano e focalizzate sull’obbiettivo di ristabilire il decoro e la qualità della vita, hanno in realtà l’effetto di omogeneizzare lo spazio pubblico: queste politiche ambiscono in effetti a ripulire lo spazio urbano. Il decoro coincide dunque con un intervento di “igienizzazione” dello spazio—uno spazio che è sicuro e decoroso quando non è più attraversato da figure o gruppi sociali ritenuti indesiderabili: senza fissa dimora, tossicodipendenti, sex workers, immigrati, e così via.

Queste politiche producono effetti paradossali perché le persone sviluppano quello che Bourdieu avrebbe definito l’habitus ad interagire con uno spazio urbano interamente ripulito di figure ingombranti, scomode, indesiderabili. Il problema è che in questo modo la tassonomia dell’indesiderabilità sociale tende ad estendersi indefinitamente, fino al momento in cui ad essere allo status di frequentatori legittimi dello spazio urbano cui rimangono soltanto cittadini benestanti alla guida di enormi SUV o impegnati a consumare risorse negli spazi privatizzati della città neoliberale. Ma anche quando lo spazio urbano si ripulisce, la paura aumenta. È un dato ovvio di psicologia individuale, prima ancora che sociale: quanto meno le persone sono esposte alla differenza e all’altro da sé, tanto più tali differenze alimentano paure e angosce.

Ma come si dispiegano queste dinamiche nel contesto statunitense? La traduzione inglese del termine decoro è decency — in italiano “decenza”; non esiste insomma un termine equivalente a “decoro”, che sia letteralmente applicabile alle politiche di sicurezza urbana e di governance metropolitana negli Stati uniti. È evidente però che esistono altri concetti che hanno acquisito una posizione altrettanto centrale nel discorso pubblico sulle politiche di sicurezza urbana negli USA, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta. Questo insieme di discorsi e politiche ha funzionato da serbatoio concettuale per una serie di analoghe strategie e pratiche di governo della sicurezza urbana che si sono sviluppate in Europa a partire dagli anni Novanta. Queste politiche sono legate al concetto di quality of life (qualità della vita) a livello urbano, e si dispiegano attraverso strategie di polizia orientate a ristabilire una qualità della vita che—nelle diagnosi di intellettuali mainstream, di think tank conservatori, e di politici in cerca di consensi—sarebbe venuta meno proprio in seguito alla presenza crescente di gruppi sociali indesiderati o pericolosi. Tuttavia, quando si parla dei dispositivi di controllo urbano nelle metropoli degli Stati uniti, possiamo distinguere almeno due distinti momenti storici, cui corrispondono altrettante dinamiche di (ri)produzione dello spazio urbano.

Il primo momento si dispiega tra anni Ottanta e i Novanta in grosse metropoli come New York, Los Angeles, Chicago ed è caratterizzato dal ruolo centrale della polizia. Sono anni nei quali acquista popolarità la teoria delle broken windows (finestre rotte) formulata da James Q. Wilson e George L. Kelling in un famoso articolo del 1982: si tratta dell’ipotesi secondo la quale il degrado urbano—se non contrastato in maniera tempestiva attraverso interventi di polizia volti a eliminare comportamenti non necessariamente criminali, ma tali da urtare la sensibilità dominante sull’uso appropriato dello spazio urbano (per esempio, l’ubriachezza, l’accattonaggio, o anche solo la presenza in strada di gruppi di giovani appartenenti a minoranze etniche svantaggiate)—non può che evolvere in comportamenti di carattere criminale più seri, pericolosi, e difficili da contrastare. Nel giro di pochi anni l’ipotesi delle finestre rotte acquisisce enorme popolarità e diventa la linea guida delle strategie di controllo urbano impiegate dal dipartimento di polizia di New York, alle cui politiche di “tolleranza zero” fornisce giustificazione criminologica. Si tratta di politiche in seguito celebrate da alcuni come all’origine del vertiginoso calo della criminalità registrato a New York, ma—va ricordato—verificatosi anche in altre città e metropoli che non hanno adottato il modello della “tolleranza zero”. Questo modello di controllo aggressivo del territorio mediante l’uso di urbane e la messa al bando di soggetti ritenuti pericolosi, per alcuni è stato un successo. Ma da molti altri viene ritenuto una sconfitta, un esempio di politica urbana tesa ad omogeneizzare lo spazio metropolitano, ad individuare categorie sociali ritenute indesiderabili ma prodotte strutturalmente dal capitalismo neoliberale, dagli elevati tassi di disoccupazione, dalle difficoltà di inserimento sociale per giovani di classe povera e appartenenti a minoranze etniche marginalizzate. La tolleranza zero è stata una abile politica di invisibilizzazione del disagio e del degrado urbano, in nome del prevalere di un paradigma di città neoliberale, di uno spazio urbano orientato al consumo e a un modello di sviluppo economico privatizzato ed escludente verso chi non ha accesso allo status privilegiato di consumatore. In questo senso, la teoria delle finestre rotte ha avuto e continua ad avere un carattere profondamente razzializzato, perché l’equazione tra disordine e minoranze afroamericane e latine si è amplificata attraverso queste strategie di polizia, che in ultima analisi hanno rinforzato (e spesso militarizzato) i confini dell’apartheid urbana negli Stati Uniti e le forme di segregazione spaziale che a questa corrispondono.

Queste politiche sono anche criticate perché hanno di fatto funzionato come un meccanismo di incessante reclutamento della popolazione carceraria nell’era dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti. Le strategie di tolleranza zero hanno infatti avuto la capacità di espandersi ben oltre il contesto urbano, fino a costituire un vero e proprio nuovo paradigma di gestione e governo degli spazi pubblici—compresi quelli che avevano un segno radicalmente diverso, orientato per definizione all’inclusione e alla risoluzione dialogica dei conflitti, come le scuole pubbliche o i campus universitari. Negli Stati Uniti le scuole hanno ormai completamente importato i modelli polizieschi della tolleranza zero; oggi si registra una presenza ossessiva della polizia nelle scuole urbane frequentate da gruppi sociali di classe operaia e appartenenti a minoranze razzializzate. Le scuole sono così divenute terreno privilegiato per il dispiegamento di un aggressivo controllo di polizia, come testimoniano i video virali che circolano in rete, soprattutto da quando la sensibilità pubblica verso la brutalità poliziesca è aumentata in seguito a noti casi di cronaca.

Tutto questo avviene anche in virtù del carattere estremamente generico del concetto di “decoro”. Non esistono definizioni oggettive di decoro urbano, ma solo diverse forme di esperienza della dimensione urbana, che sono a loro volta frutto di diverse provenienze culturali, di classe, di genere, etniche, etc. Considerato il carattere falsamente neutrale di questo concetto, il fatto di assegnare alla polizia non più solo il compito di prevenire o reprimere comportamenti formalmente criminali, ma anche di stabilire o ristabilire determinati standard di ordine sociale e urbano lascia un ampio margine per forme di discrezionalità e arbitrio che frequentemente sconfinano nell’abuso e nella violenza. Non è un caso che gli anni Novanta a New York, ovvero il periodo di assoluta egemonia di questa ideologia del controllo urbano come polizia della qualità della vita—gli anni durante i quali Rudolph Giuliani era sindaco e William Bratton capo della polizia di New York—siano anche stati gli anni in cui le denunce di violenze e i casi di abuso da parte della polizia hanno raggiunto un livello mai visto prima. Sono gli anni di Amadou Diallo e di Abner Louima, gli anni in cui la polizia di New York viene percepita sempre più come un esercito di occupazione dello spazio urbano. Va anche detto che di recente alcune corti federali statunitensi hanno finalmente sancito l’incostituzionalità di una delle principali pratiche di polizia adottate nell’ambito di questa strategia di mantenimento dell’ordine urbano—quella dello stop and frisk, cioè la prassi di fermare, interrogare, e perquisire chiunque la polizia ritenga “sospetto”. Queste pratiche, che avevano colpito in maniera sproporzionata soprattutto gli giovani maschi appartenenti a minoranze etniche, sono ora state dichiarate incostituzionali. Sempre a proposito del ruolo della polizia nella produzione dell’ordine urbano, bisogna qui citare uno sviluppo parzialmente alternativo, in quanto ipoteticamente meno escludente, e cioè quello della cosiddetta “polizia di comunità”—un concetto collimante ma non del tutto analogo a quello di quality of life policing. La nozione dicommunity policing è sulla carta meno repressiva e più progressista, ma tuttavia carica di problemi e contraddizioni che sono dello stesso segno di quelli appena illustrati a proposito della tolleranza zero. Il problema fondamentale è definire cosa è la comunità. Se la polizia di comunità dovesse davvero prendere sul serio i bisogni della comunità, sollecitare la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini nella definizione della sicurezza urbana e delle strategie di polizia per conseguirla, viene allora da chiedersi dove inizia e dove finisce la comunità. Ne fanno parte i senza fissa dimora che sono così spesso al centro delle politiche di ordine urbano? Ne fanno parte i tossicodipendenti che frequentano un certo parco cittadino perché quella è la zona più sicura per consumare le sostanze lontano dalla sorveglianza della polizia o di altri? Ne fanno parte i lavoratori e le lavoratrici del sesso che avrebbero legittimamente aspirazione a esercitare la propria professione in condizioni di sicurezza, protetti dall’abuso dei clienti e della polizia? Tutto questo ovviamente non accade: quando si parla di “comunità” si parla in realtà sempre del coinvolgimento selettivo di alcuni membri della cittadinanza, quelli dotati del capitale sociale e culturale—e spesso anche di quello economico—che consente loro di far parte a pieno titolo della comunità. È piuttosto impensabile immaginare un’assemblea pubblica tra cittadini e polizia—prassi tipica di questo modello di polizia di comunità—alla quale partecipino proprio i soggetti che sono tipicamente additati come portatori di “insicurezza”. Si pone dunque il problema di come superare una nozione restrittiva e omogenea di “comunità” e dei concetti ad essa legati—quali decoro, degrado e sicurezza urbana—che celano un determinato modello di società e dei rapporti tra gruppi sociali e classi.

Il secondo momento storico—al quale corrisponde una crescente mobilitazione per la produzione dell’ordine urbano da parte di soggetti diversi dalla polizia—inizia alla fine degli anni Novanta e si protrae tutt’ora. A generare un certo tipo di ordine nella metropoli (e a riprodurlo nella sua forma ideale) non è più solo la polizia quanto il mercato, anche se con il diretto coinvolgimento dei cittadini nella veste di consumatori dello spazio urbano. Mi riferisco qui al processo di trasformazione urbana che va sotto il nome di gentrification. Si tratta di un fenomeno fondamentale negli Stati Uniti, che ha generato (e genera tuttora) un gigantesco spostamento di popolazione da e verso i centri urbani. Verso la metà degli anni Novanta, le classi medie bianche che erano fuggite dai centri urbani alla ricerca dell’American way of life nei paradisi suburbani—soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta—ricominciano a fare ritorno in città. I ceti medi tornano in città perché annoiati dalla monotonia della vita suburbana che possiamo vedere in diversi film ambientati negli USA (si pensi per esempio a Pleasantville o The Stepford Wives), stressati dalle ore trascorse in macchina per il pendolarismo tra i sobborghi dove vivono e le città dove lavorano, e affascinati dalla prospettiva di un’esperienza urbana più avvincente e ricca di possibilità di consumo. Negli ultimi due decenni abbiamo assistiamo dunque a un significativo movimento di ritorno verso i centri urbani. Questo ha fatto sì che quartieri metropolitani che erano stati abbandonati a se stessi trasformandosi così in zone di contenimento urbano per tutti gli anni Settanta e Ottanta, divenissero nuovamente ambiti dalla popolazione di classe media, introducendo nuove opportunità di investimento immobiliare a diversi livelli. Masse di giovani yuppies figli della generazione dei baby boomers, ondate di creativi e lavoratori dell’immateriale ben pagati e in cerca di uno stile di vita urbano ricco di novità e opportunità di consumo, cercano ora casa nei quartieri che erano stati tradizionalmente afroamericani o latini, e che avevano funzionato come ghetti, come spazi di segregazione e contenimento urbano.

Non bisogna tuttavia dimenticare che un ghetto appare come semplice luogo di contenimento solo dal difuori, cioè agli occhi di chi ne osserva il confine dall’esterno, ma al suo interno qualsiasi “ghetto” costituisce uno spazio sociale, una comunità attraversata da relazioni personali, economiche, affettive e politiche. Colonizzando quel che rimane dei ghetti urbani, i nuovi gentrifiers bianchi di classe media che la tech economy ha dotato di mezzi economici sufficienti per investire in un mercato immobiliare dai costi sempre più proibitivi, hanno compromesso con la loro stessa presenza la fabbrica sociale dei quartieri urbani originariamente abitati dalla classe operaia. Infatti l’arrivo di queste nuove popolazioni benestanti ha alimentato una selvaggia speculazione immobiliare, con la conseguenza che il prezzo delle case—tanto in vendita quanto in affitto—ha iniziato a crescere in maniera verticale (salvo la breve parentesi recessiva del 2008) mentre le tasse sulla casa sono aumentate a dismisura. Un’ampia fetta di popolazione residente in questi quartieri—che aveva rappresentato il nocciolo duro della classe operaia Afroamericana trasferitasi in quei quartieri tra gli anni Quaranta e Sessanta, in seguito alla grande migrazione dal sud che ha interessato milioni di afroamericani in fuga dalla segregazione razziale del regime Jim Crow)—si vede ora impossibilitata a continuare a vivere in queste aree urbane, perché il costo della vita, gli affitti, le tasse immobiliari e la manutenzione delle case diventano insostenibili. Nel quartiere dal quale scrivo, cioè North Oakland, le famiglie afroamericane non possono più permettersi di mantenere le case dove hanno vissuto per decenni, e quindi le vendono a poco prezzo a speculatori immobiliari che le ristrutturano e per poi rivenderle a cifre impensabili. North Oakland, il quartiere che nel 1966 ha visto nascere le Pantere Nere, è un quartiere ormai quasi interamente bianco; quello a cui si assiste è un vero e proprio esodo di massa delle minoranze dai centri urbani, un movimento inverso a quello della grande migrazione dal sud. Ciò determina un nuovo ordine urbano gentrificato—la linea dell’apartheid si sposta, producendo nuove concezioni di ordine e decoro. Succede allora, per esempio, che i neo-residenti bianchi si lamentino della presenza degli afroamericani che continuano risiedervi, percepiti come presenze indesiderate, “fuori posto”, e potenzialmente criminali. Per esempio, i popolari social network di quartiere—sorta di Facebook locali dove i residenti possono scambiarsi informazioni, annunci, etc.—sono utilizzati sempre più spesso per pubblicare “delazioni digitali” contro i residenti sottoprivilegiati, contro presenze ritenute sospette e che invariabilmente sono quelle dei residenti storici di questi quartieri. Ad imporsi anche qui è un nuovo concetto di decoro, perché i modi di utilizzo e attraversamento dello spazio urbano diffusi presso le comunità afroamericane e latine—per esempio, un certo modo di vivere la strada, il marciapiede, la drogheria all’angolo, etc.—sono marcatamente diversi da quelli più anonimi, individualistici, e orientati al consumo tipici dei nuovi residenti. Ne deriva un conflitto a bassa intensità che si risolve sistematicamente a favore dei nuovi arrivati, le cui norme sociali e i cui interessi economici godono della protezione della polizia e sono sostenuti da dinamiche di mercato che li moltiplicano. La produzione di questo ordine urbano razzializzato e di classe può non di rado produrre effetti letali: non si deve cioè pensare che la parziale sostituzione del mercato alla polizia implichi meno violenza, esclusione, o repressione in senso tradizionale. Si pensi al caso di Trayvon Martin, uno dei primi omicidi di giovani afroamericani nel nome dell’ordine e della sicurezza, ad aver suscitato ampia reazione e indignazione sociale contro le violenze della polizia negli Stati Uniti. Quell’omicidio è avvenuto il 26 febbraio 2012 in un sobborgo della Florida, Sanford, che è una comunità cintata—una gated community dove Trayvon si era recato assieme al padre in visita da altre persone. Trayvon Martin è stato ucciso da una guardia privata (membro del locale programma di neighborhood watch) in quanto percepito come un individuo potenzialmente pericoloso: Trayvon era infatti di un giovane afroamericano con una felpa col cappuccio sollevato—una presenza decisamente insolita in quel quartiere.

In conclusione, vorrei accennare all’emergere di nuove forme di resistenza a questo ordine urbano. In questo senso, il movimento Occupy ha senz’altro rappresentato un tentativo di riappropriazione dal basso dello spazio pubblico e delle piazze. È stato un movimento meteorico, ma che ha segnalato tra le altre cose un bisogno di declinare diversamente l’uso dello spazio urbano. Esistono poi tuttora movimenti contro la gentrification, tentativi di respingere la progressiva omogeneizzazione dei quartieri nel segno della speculazione immobiliare e finanziaria. La sfida che si pone a questi movimenti è molto chiara ma anche difficile: il problema è che la resistenza a un ordine urbano oppressivo imposto dalla polizia paradossalmente offre più spazi di agibilità politica rispetto all’opposizione a un fenomeno impersonale, acefalo, e decentrato come la gentrification. In altre parole è più semplice mobilitare l’opinione pubblica contro una polizia razzista che brutalizza e uccide i poveri di colore, che non sensibilizzare la popolazione rispetto un mercato immobiliare che costringe i poveri all’esodo. Ancora una volta, nella metropoli neoliberista sono soprattutto le dinamiche impersonali e invisibili del mercato a produrre il nuovo ordine urbano; si tratta di dinamiche delle in una certa misura sono tutti partecipi e complici—inclusi ed esclusi—spesso senza rendersene conto. È il mercato a sancire inclusioni ed esclusioni, privilegi e privazioni. Come scrive David Harvey, è sempre più la dimensione urbana come spazio di valorizzazione del capitale contro il comune e i beni comuni, a rappresentare uno dei terreni fondamentali del processo di accumulazione per espropriazione tipico del capitalismo contemporaneo. Il conflitto per lo spazio urbano, per la riappropriazione della città e per la produzione del comune non può che essere allora anche una lotta contro il decoro—dove per decoro si intende la privatizzazione dello spazio sociale, l’omologazione delle differenze (razziali, di classe, di genere), e la paura come concetto ordinatore dell’esperienza urbana.

Alessandro De Giorgi

Intervento  integrale che Alessandro De Giorgi ha tenuto in in occasione della giornata “Contro il decoro” svoltasi lo scorso 7 novembre prima in forma itinerante (con una “passeggiata psicogeografica”) tra il Pigneto e San Lorenzo, e poi tra il Nuovo Cinema Palazzo e Esc. su  “stato di polizia, gentrification e omologazione dello spazio sociale” (da DinamoPress)

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