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Zona grigie che preparano dittature

Non è possibile capire l’obiettivo reale della proroga dello stato di emergenza in Francia [prorogato fino alla fine di febbraio] se non la si colloca nel contesto di una radicale trasformazione del modello statale che ci è più familiare.

Bisogna prima di tutto smentire quel che dicono donne e uomini politici irresponsabili, secondo i quali lo stato di emergenza sarebbe uno strumento a difesa della democrazia. Gli storici sanno bene che è vero il contrario. Lo stato di emergenza è infatti il dispositivo attraverso il quale i regimi totalitari si affermarono in Europa. Negli anni che precedettero la salita al potere di Hitler, ad esempio, i governi socialdemocratici di Weimar avevano fatto un tale ricorso allo stato di emergenza (o stato di eccezione, come dicono i tedeschi) che è lecito dire che la Germania aveva smesso di essere una democrazia parlamentare già prima del 1933.

Il primo atto politico di Hitler, dopo la sua nomina, fu proclamare lo stato di emergenza, che da allora in poi non fu mai più revocato. Quando ci si stupisce del fatto che in Germania i nazisti abbiano commesso impunemente così tanti crimini, si dimentica che quelle azioni erano perfettamente legali, poiché il paese era sottoposto allo stato di emergenza e poiché le libertà individuali erano sospese.

Non c’è motivo di escludere che uno scenario analogo possa ripetersi in Francia: non è difficile immaginare un governo di estrema destra mentre si serve di uno stato di emergenza al quale i cittadini sono stati assuefatti dai governi socialisti. In un paese che vive in uno stato di emergenza continuo e nel quale le operazioni di polizia sostituiscono progressivamente il potere giudiziario, è lecito attendersi una dissoluzione rapida e irreversibile delle istituzioni pubbliche.

Sostenere la paura

Questo è ancor più vero in considerazione del fatto che lo stato di emergenza si inserisce, oggi, all’interno del processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare «Stato di sicurezza» (o Security State, come dicono i politologi statunitensi). La parola «sicurezza» è entrata a tal punto nel lessico politico che possiamo dire, senza paura di sbagliare, che la «ragion di sicurezza» ha preso il posto di quella che un tempo si chiamava la «ragion di Stato». E tuttavia un’analisi di questa nuova forma di governo è attualmente difficile da fare: lo Stato di sicurezza non si riferisce né allo Stato di diritto né a quello che Michel Foucault chiamava «disciplinamento sociale». È quindi opportuno mettere qui qualche paletto in vista di una possibile definizione.

Nel modello del filosofo inglese Thomas Hobbes, che ha influenzato profondamente la nostra filosofia politica, il contratto con cui i poteri erano trasferiti al Sovrano presupponeva la paura reciproca e la guerra di tutti contro tutti: lo Stato era per l’appunto ciò che doveva mettere fine alla paura. Nello Stato di sicurezza questo modello è ribaltato: lo Stato si fonda durevolmente sulla paura e deve sostenerla ad ogni costo, perché da essa trae la sua funzione essenziale e la sua legittimazione. Già Foucault aveva dimostrato che, quando la parola «sicurezza» fece la sua comparsa nel lessico politico francese con i governi fisiocratici precedenti alla Rivoluzione, non si cercava di prevenire le catastrofi o le carestie ma di lasciare che accadessero per poi guidarle e orientarle nella direzione che si riteneva più conveniente.

Non c’è alcun senso giuridico

Allo stesso modo, la sicurezza di cui si parla oggi non mira affatto a prevenire gli atti di terrorismo (cosa peraltro molto difficile, se non impossibile, dato che le misure di sicurezza sono efficaci solo ad attacco avvenuto e dato che il terrorismo è per definizione un attacco senza preavviso), ma mira a stabilire un nuovo tipo di rapporti fra le persone, basato su un controllo generalizzato e illimitato: dal che l’attenzione particolare sui dispositivi che permettono un controllo totale dei dati informatici e delle comunicazioni dei cittadini, compresa la possibilità di accedere integralmente al contenuto dei computer personali.

Il primo rischio è una deriva verso la creazione di una relazione sistemica fra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per legittimarsi, allora è necessario provocare il terrore o, nella migliore delle ipotesi, fare in modo che non sia ostacolato. Si vedono così paesi che perseguono una politica estera che alimenta quel terrorismo che poi pretendono di combattere all’interno, che intrattengono relazioni cordiali o addirittura vendono armi a Stati che sono noti finanziatori delle organizzazioni terroristiche.

Un secondo aspetto che è importante tenere a mente è il cambiamento nello statuto politico dei cittadini e del popolo, che si reputava depositario della sovranità. Nello Stato di sicurezza si osserva una tendenza irrefrenabile verso una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali. Tale tendenza è ancor più inquietante se si considera che era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento sostanzialmente impolitico al quale lo Stato doveva garantire protezione e crescita. Ora, secondo questi teorici c’era un unico modo per politicizzare questo elemento impolitico: attraverso la comunanza della nascita e della razza, che avrebbe distinto il popolo dallo straniero e dal nemico. Non si tratta qui di confondere lo Stato nazista con lo Stato di sicurezza contemporaneo. Quello che bisogna capire però è che quando si depoliticizzano i cittadini poi l’unico modo per farli uscire da questa passività è mobilitarli con la paura di un nemico straniero ma non del tutto estraneo: gli ebrei nella Germania nazista, i mussulmani nella Francia di oggi.

È in questo contesto che bisogna pensare all’inquietante progetto di cancellazione della cittadinanza per i cittadini con doppia nazionalità, che ricorda la legge fascista del 1926 sulla denazionalizzazione dei «cittadini indegni della cittadinanza italiana» e le leggi naziste sulla denazionalizzazione degli ebrei.

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Incertezza e terrore

Un terzo aspetto, del quale non bisogna sottovalutare l’importanza, è la radicale trasformazione dei criteri che stabiliscono la verità e la certezza nella sfera pubblica. Ciò che più colpisce l’osservatore scrupoloso nella lettura dei comunicati ufficiali sugli atti di terrorismo, è la totale rinuncia alla ricerca di una verità giudiziaria. Mentre nello Stato di diritto è dato per fondamentale che un crimine debba essere definito tale attraverso un’indagine giudiziaria, nel paradigma securitario bisogna accontentarsi di quello che dice la polizia o di quello che dicono i media basandosi sulla prima: due fonti che sono sempre state considerate troppo deboli. Da qui l’ondata di incredibili e palesi contraddizioni nelle ricostruzioni ufficiali dei fatti, che eludono sapientemente ogni possibilità di verifica o falsificazione e che assomigliano molto di più a chiacchiere da bar che a vere inchieste. Questo vuol dire che lo Stato di sicurezza ha tutto l’interesse che i cittadini – dei quali deve garantire la protezione – restino nell’incertezza riguardo a ciò che li minaccia, perché incertezza e terrore vanno sempre a braccetto.

Questa incertezza la si ritrova nel testo della legge del 20 novembre sullo stato di emergenza, che fa riferimento a «ogni persona nei confronti della quale esistono seri motivi per pensare che il suo comportamento costituisca una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza». È del tutto evidente che questa formula («seri motivi per pensare») non ha alcun senso giuridico, poiché poggiando sull’arbitrarietà di chi «pensa», può di fatto essere applicata in qualunque momento a qualunque persona. Ora, nello Stato di sicurezza queste formule indeterminate, che i giuristi hanno sempre considerato contrarie al principio della certezza del diritto, diventano invece la norma.

Depoliticizzazione dei cittadini

La stessa imprecisione e gli stessi equivoci ritornano nelle dichiarazioni degli uomini politici che pensano che la Francia sia in guerra contro il terrorismo. Una guerra contro il terrorismo è una contraddizione di termini, perché uno stato di guerra può essere definito tale solo se esiste la possibilità di identificare con certezza il nemico che si intende combattere. Nella prospettiva securitaria, al contrario, l’identità del nemico deve restare nell’incertezza affinché chiunque – all’interno come all’esterno – possa essere identificato come tale.

Mantenimento di uno stato di paura generalizzato, depoliticizzazione dei cittadini, rinuncia a qualsiasi certezza del diritto: ecco tre caratteristiche dello Stato di sicurezza che hanno tutti i numeri per far rabbrividire gli animi. Da una parte infatti lo Stato di sicurezza verso il quale stiamo scivolando fa il contrario di quanto promette, poiché se sicurezza significa assenza di preoccupazioni (sine cura) esso al contrario sostiene la paura e il terrore. D’altra parte lo Stato di sicurezza è uno Stato di polizia, poiché attraverso l’eclissi del potere giudiziario generalizza quei margini discrezionali della polizia che, in uno stato di emergenza divenuto la norma, sono sempre più determinanti.

Attraverso la depoliticizzazione del cittadino, diventato in un certo senso un terrorista in potenza, lo Stato di sicurezza esce dal campo tradizionale della politica per dirigersi verso una zona grigia, nella quale pubblico e privato si confondono ed è difficile tracciare una linea di confine netta.

Giorgio Agamben da Comune-Info

Fonte originale lemonde.fr (dove è stato pubblicato con il titolo “Giorgio Agamben: «De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité»”, Dallo stato di diritto allo stato di sicurezza). Tradotto per comedonchisciotte.org da Martino Laurenti (che ringraziamo).

Venerdi 15 gennaio a Roma presso la Biblioteca della Chiesa Valdese in via Marianna Dionigi 69 si terrà un importante convegno europeo su “Europa da stato di diritto a stato di eccezione

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