Palestinesi in fuga da una parte all’altra della Striscia verso un rifugio che non c’è. Il cibo è introvabile: il 90% della popolazione mangia meno di una volta al giorno. Dopo il veto Usa alla mozione voluta da Guterres, Israele insiste: non abbiamo limiti di tempo, durerà mesi
di Chiara Cruciati
Al-Mawasi si affaccia sul Mediterraneo, a ovest di Khan Yunis. A sette km in linea d’aria da Rafah, è qui che decine di migliaia di sfollati si sono rifugiati dopo l’inizio dell’offensiva via terra israeliana a sud e l’escalation di quella aerea su Khan Yunis. Israele la ritiene «zona sicura», ma non è che una piccola cittadina, priva di tutto. Gli sfollati montano qualche tenda ma posto non c’è.
«Non ci sono bagni. Non c’è acqua. Le persone si contendono l’acqua. Non è una questione di Hamas o Abu Mazen, di Israele o Egitto. Si tratta dei nostri bambini. Paghiamo il prezzo di qualcosa fatto da altri».
È la testimonianza, affidata ad al Jazeera, di Yaser Abu Asi. Fa l’ingegnere, è arrivato ad al-Mawasi da Khan Yunis. I giornalisti che lo intervistano raccontano di una folla di persone che si accalca intorno alla loro auto: pensavano portasse aiuti umanitari. Non mangiano da due giorni.
LA FAME è ormai insostenibile. Lo dice l’Onu da giorni, lo dicono le altre ong presenti sul campo e prive di aiuti da distribuire. A nord la fame si concentra nei rifugi improvvisati, come l’ospedale al-Awda, circondato da tank e cecchini.
Dentro ci sono ancora 250 persone, tra pazienti e medici. Stanno finendo il cibo e non hanno idea di come procurarselo, con i cecchini che sparano a chi entra o esce. Due giorni fa la Mezzaluna rossa ha interrotto le attività nelle regioni settentrionali di Gaza. In contemporanea l’Onu ha detto di non aver più alcun piano di gestione della crisi a sud.
Ieri alla Reuters Carl Skau, vice direttore esecutivo del World Food Programme, ha annunciato un nuovo procedimento per l’ingresso di camion al valico di Kerem Shalom (Karem Abu Salem), a sud-ovest della Striscia. Si stanno testando le procedure di ispezione dei container in ingresso non più solo dall’Egitto ma anche dalla Giordania. Ma va tutto a rilento, dice Skau. E finché non verrà aperto anche Kerem Shalom, la quantità di aiuti sarà sempre ampiamente insufficiente: metà della popolazione è denutrita, ha aggiunto, e il 90% non mangia ogni giorno.
Alla Bbc ieri il portavoce delle forze armate israeliane, Richard Hecht, ha detto che «ogni morte di un civile è dolorosa, ma non abbiamo alternativa». Secondo Israele, sarebbero 7mila i miliziani di Hamas uccisi dal 7 ottobre.
Hamas da parte sua risponde con messaggi su Telegram in cui rivendica le azioni contro i soldati israeliani: oltre a veicoli distrutti, le Brigate al-Qassam ieri dicevano di aver «preso di mira comandi militari del nemico» nel sud di Gaza con colpi di mortaio. I combattimenti crescono al sud dove Hamas è riuscita a spostare buona parte delle proprie forze, più a dimostrare di esistere ancora. È in tale clima che ieri si sono moltiplicate le reazioni al veto con cui gli Stati uniti hanno bloccato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva il cessate il fuoco immediato.
QUANDO il vice ambasciatore statunitense all’Onu, Robert Wood, ha alzato la mano alla conta dei contrari, nessuno si è sorpreso. Nemmeno alla luce del lunghissimo negoziato che andava avanti da giorni, da quando il segretario generale Guterres aveva attivato, con una mossa storica, l’articolo 99 della Carta dell’Onu.
Su Washington piovono critiche e condanne, accuse di complicità con il massacro in corso a Gaza. Quella risoluzione era stata co-firmata da ben cento paesi, mezzo mondo. La sola speranza – ricordavano ieri svariati analisti – è che l’intervento di Guterres abbia comunque smosso le acque: le pressioni su Tel Aviv sono globali, quelle su Washington pure. Potrebbero accorciare i tempi dell’offensiva, che Israele sperava di trascinare fino a fine gennaio.
Ieri a N12News il capo del consiglio di sicurezza israeliano, Tzachi Hanegbi, ha detto che la guerra proseguirà per mesi e che gli Usa non hanno dato a Tel Aviv una data di scadenza. Ma Netanyahu due mesi non li ha. Di sicuro non li ha la gente di Gaza. Ieri sotto le bombe c’era di nuovo tutta la Striscia, da Deir al-Balah al centro a Khan Yunis a sud. A Deir al-Balah sono stati centrati alcuni edifici residenziali, un’area che sembrava «libera» a guardare le mappe delle forze israeliane.
Le stesse mappe che ieri sono cadute a Gaza city, per dire ai civili di spostarsi a ovest della città, e che sono piovute su Khan Yunis, per dirgli di lasciare i quartieri di Al-Katiba e Al-Mahatta «verso i rifugi conosciuti». Che cambiano di continuo, che vengono comunque colpiti o che sono talmente tanto affollati da non poter accogliere più nessuno.
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La strage di civili a Gaza deve continuare
di Tommaso Di Francesco
Il massacro, come uno show, deve continuare. È quello che dichiara di volere l’Amministrazione Biden che venerdì sera ha posto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il veto ad una risoluzione disperata che chiedeva l’immediato cessate il fuoco a Gaza, proposta eccezionalmente dal segretario generale dell’Onu Guterres che ha fatto ricorso all’articolo 99, quello che denuncia «la minaccia al mantenimento della pace e alla sicurezza internazionale». Il voto dice lo smacco dell’isolamento subito stavolta dagli Stati uniti: sui 15 votanti del Consiglio di sicurezza, oltre la Russia e la Cina anche la Francia ha votato a favore e la Gran Bretagna si è astenuta. Netanyahu, che poggia le sue fortune e la leadership nel gabinetto di guerra che momentaneamente lo ha salvato dalle sue responsabilità per l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ringrazia: finché potrà dimostrare con le stragi in corso, di avere vinto a Gaza.
Così la sua salvezza politica e il suo ruolo di potere saranno definitivi e poco importa della sorte degli ostaggi, come ha detto. Intanto attacca Guterres, lo minaccia e lo indica quasi come un affiliato ad Hamas. Ma la «colpa» di Guterres è solo quella avere detto la verità: «La popolazione di Gaza sta guardando l’abisso, la comunità internazionale deve porre fine al loro calvario» aggiungendo «la brutalità perpetrata da Hamas non potrà mai giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese».
UNA VOCE ACCORATA la sua, il cui pregio oltre ad interpretare la drammaticità degli eventi senza doppi standard, richiama a ruolo l’autorità dell’Onu in questo buio planetario. Una autorità che il governo israeliano ha letteralmente bombardato in questi due mesi, colpendo le sue sedi nella Striscia, uccidendo centinaia di suoi addetti e funzionari. Facendo tiro al piccione delle scuole dell’Unrwa rimaste, unico centro di solidarietà ed accoglienza per due milioni e 300 mila donne, bambini, anziani palestinesi deportati prima a sud poi a nord, nell’annuncio di una «sicurezza» smentita in un criminale teatrino da ogni raid israeliano. Per l’unica prospettiva di una nuova, grande Nakba. Ma dove fuggire?
PERCHÉ A GAZA è in corso un massacro di inermi. Lo provano anche le inchieste indipendenti di coraggiosi giornalisti israeliani (come quella di +972 Local Call, pubblicata dal manifesto giovedì) che dimostrano come non ci siano effetti collaterali, ma che l’uccisione di civili è consapevole e programmata – l’infamia di parlare di «scudi umani» è appunto un’infamia: 364 kq, quasi come Roma, se si bombarda nel terrore come si fa a non sapere che le vittime saranno i civili? Siamo a quasi 18mila morti finora – ma a Natale arriveremo a più di 20mila e toccherà mettere un carro armato tra le statuine del presepe – dei quali almeno 7mila bambini. Che non hanno cure e psicologi che li soccorrono ma solo la vista spalancata sull’inferno: non esistono più le loro case, spesso non esistono più nemmeno i genitori, e quelli feriti – lo dice perfino il procuratore della Corte internazionale Khan «vengono operati senza anestesia».
E VEDONO I GRANDI umiliati, rastrellati come animali, mostrati al dileggio seminudi con cappuccio in testa e naturalmente fatti passare tutti per miliziani di Hamas, mentendo sul luogo del loro arresto come ha fatto all’Onu la delegazione israeliana parlando di Khan Younis. Joe Biden – che aveva votato a favore di entrambe le guerre, irachena e afghana, e che al disastroso ritiro dell’intervento Nato a Kabul ha avuto la faccia tosta di dichiarare che l’intervento militare «non era stato fatto per la democrazia ma per vendicare l’11 settembre» – all’inizio della risposta militare israeliana aveva dichiarato : «Non commettete gli stessi errori nostri in Iraq e in Afghanistan»; dopo il veto Usa all’Onu di venerdì sera, quelle parole vanno interpretate diversamente: «Continuate pure il massacro, tanto quello che abbiamo fatto in Iraq e in Afghanistan è rimasto e rimarrà impunito».
GIÀ, ABU GHRAIB, le extraordinary rendition, Guantanamo, le centinaia di miglia di morti civili, le stragi di Mosul, e Falluja dove non a caso ebbe origine la «generazione dell’Isis»: quale Corte internazionale si è mai impegnata a fare verità e giustizia? Ora di fronte a tanta nuova violenza e impunità, che si esercita, non come i macellai a mano di Hamas ma con raffinata e spersonalizzata tecnologia, intelligenza artificiale, jet e carri armati, c’è da temere. Quando non si riesce a fermare una strage di civili in corso, nemmeno con un voto del Consiglio di sicurezza riunito sulla «minaccia alla pace del mondo», vuol dire che la violenza è legittimata. Come quella dei coloni in Cisgiordania.
FA COSÌ STUPORE che l’Unione europea abbia, dopo l’attentato di Parigi di un giovane iraniano radicalizzato – allertato commissioni e iniziative per vigilare nel timore di attentati terroristici in Europa in occasione delle feste. L’Europa e l’ Italia- che con Meloni plaude a Netanyahu e allo scellerato veto di Biden – più che al pericolo per la pace finta dei mercatini di Natale, farebbero bene a guardare gli occhi dei bambini di Gaza. Le testimonianze indipendenti di ’Medici senza Frontiere’ e inchieste di media anche americani, ci dicono di un fenomeno tragico quanto nuovo: bambini di 5 anni che, negli ospedali in macerie dove anche i medici sono stati uccisi, scoprendosi orfani e mutilati, dichiarano di volersi suicidare; e tanti ragazzini di 8 e 9 anni che rivendicano con forza che nella vita vorranno solo combattere Israele.
E UNA QUALCHE ATTENZIONE andrebbe data al pericoloso annuncio di Netanyahu. Dopo la messa in mora della proposta di pena di morte per i terroristi di Hamas fatta dalla destra fascista di Ben Gvir, anche per la dura opposizione delle famiglie degli ostaggi, il premier israeliano ha dato il via alle operazioni all’estero del Mossad per colpire Hamas. Questa nuova guerra, prolungamento del massacro di Gaza, è credibile che ci arrivi in casa e contro obiettivi palestinesi qualsiasi; ne abbiamo viste tante purtroppo di queste esecuzioni – risultate poi «sbagliate» per lo stesso Mossad – dopo Monaco negli Anni Settanta. Basterà essere un intellettuale palestinese radicale, magari un poeta – allora a Roma Wael Zuaiter, oggi Refaat Al Areer assassinato con esecuzione mirata venerdì a Gaza. Tutto torna come e peggio di prima.
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«I missili incendiano gli olivi, il fosforo bianco avvelena le falde»
Gli effetti ambientali nel sud del Libano. Intervista all’agronoma Rabab Aouad
di Pasquale Porciello
L’impatto ambientale della guerra nel sud del Libano tra Hezbollah e l’esercito israeliano è forte. Secondo il ministro dell’agricoltura libanese Abbas Hajj Hassan, il «60% delle terre bruciate dai bombardamenti è coperta di foresta, mentre il 40% da terreni agricoli». Si tratta di circa 500 ettari di foreste in gran parte di pini e querce, mentre sono circa 50mila gli ulivi bruciati, in zone storicamente dedite alla produzione di olive e olio. Il pericolo maggiore viene però dall’utilizzo da parte di Israele di bombe al fosforo bianco, già certificato da Human Rights Watch e riportato anche da Amnesty International.
Oltre 60 giorni di combattimenti dall’8 ottobre; oggi hanno luogo lungo tutto il confine israelo-libanese. Ieri è successo di nuovo: raid israeliani sul sud del Libano. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha stimato che circa 30mila libanesi sono stati costretti a lasciare le case e i contadini ad abbandonare i terreni.
Abbiamo chiesto all’ingegnera agronoma Rabab Aouad, collaboratrice in vari progetti a sud tra cui «Dot Olive Project» per la ong Celim, di fare il punto sulla sitiazione attuale.
Qual è limpatto economico della guerra nel sud del Libano nel settore agricolo?
Con la crisi cominciata nel 2019 i contadini hanno già dovuto affrontare una serie di problemi soprattutto nel settore della produzione di olio e olive, principale coltura nel sud del Libano: costo del trasporto, importazione di fertilizzanti e prodotti per l’agricoltura. Ora la guerra. I contadini hanno lasciato le loro terre senza poter raccogliere le olive e spesso ritardare la raccolta vuol dire una peggiore qualità dell’olio. Gli stessi collegamenti con il sud si sono fermati e quindi anche la compravendita di olio e olive, si tratta di zone off-limit.
L’uso del fosforo bianco da parte di Israele è stato già certificato da organizzazioni indipendenti e sono in corso ulteriori analisi e accertamenti da parte del il ministero dell’agricoltura libanese. Quali sono le implicazioni sul breve e lungo periodo?
Tecnicamente se non ci sono residui di fosforo bianco sulle piante e sul suolo possiamo dire che l’impatto è limitato. Ma se, come pare, i residui ci sono, il fosforo può reagire fino a due settimane dopo lo spargimento. Vuol dire che se piove il fosforo bianco contaminerà la falda acquifera aumentandone la tossicità. Sappiamo che, secondo i dati del programma per l’ambiente delle Nazioni unite, il fosforo bianco è una delle maggiori cause di inquinamento ambientale di acqua e di suolo e che provoca cambiamenti nell’ambiente naturale e una diminuzione della biodiversità.
Le foreste e i campi bruciano dall’inizio del conflitto. Qual è l’entità dei danni e quanto tempo ci vorrà per tornare alla situazione precedente? Cosa stanno al momento facendo il governo libanese e le organizzazioni indipendenti per fronteggiare questa ulteriore crisi?
Possiamo parlare di due tipi di impatto, uno di breve e uno di lungo periodo. Per il breve periodo, l’inquinamento è quello superficiale, ovvero del suolo. Il secondo, è quello della falda acquifera. Non so dire quanto tempo ci vorrà per tornare a una situazione di normalità, ma sicuramente molto. Al momento il governo e in particolare il ministero dell’agricoltura non hanno implementato nessuna azione significativa, se non analisi del suolo e delle acque. Altre organizzazioni non governative hanno provato a coordinare la raccolta delle olive e le attività ad essa legate.
(articoli ripresi da il manifesto del 10 dicembre 2023)
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