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Stato d’eccezione e tolleranza zero: il nuovo spazio giudiziario europeo

In vista del seminario della R@P (Rete di Autorganizzazione Popolare) del 15 gennaio, che si terrà a Roma in Via Bordoni nella Casa del Popolo di Torpignattara, pubblichiamo uno scritto di Italo di Sabato dell’osservatorio sulla repressione che curerà il seminario su neoliberismo e gestione penale della crisi. Lo scritto sarà utilizzato come traccia introduttiva del seminario che si terrà a partire dalle ore 15.
È strano, ma quando si parla di democrazie liberali si omette sempre di ricordare che questi sistemi prevedono, in caso di grave minaccia, specifiche clausole di autosospensione del proprio ordinamento costituzionale.
Per funzionare il sistema giuridico ha bisogno di normalità, perché ciò avvenga esso si avvale di momenti di interruzione che vengono chiamati “stato di eccezione”. È questo un punto cruciale, poiché chi introduce una tale misura è in buona sostanza l’ultimo a decidere, non a caso chi ha questo potere è stato indicato come il sovrano reale. Non lo stato di diritto, dunque, ma chi può decidere sulla sua sospensione rappresenterebbe il vero arcana imperii della sovranità.
A ricordarcelo è stata l’UE con “Uno spazio giudiziario europeo”. La soluzione per ogni problema, il rimedio contro i mali del XXI secolo: “terrorismo planetario”, insicurezza crescente, invasione delle popolazioni senza risorse.
Lotta senza quartiere contro il crimine, tolleranza zero, giudiziarizzazione sempre più estesa della vita sociale e politica, ma legge ed ordine possono arrivare a dominare queste nuove contraddizioni e sfide? O al contrario siamo di fronte ad una cinica panoplia di argomenti che fanno della paura, dell’angoscia e dell’ansia, dei nuovi ingredienti del mercato politico? Dispositivi ansiongeni, deliri sicuritari, demagogia giudiziaria, non rischiano forse di rivolgersi contro i loro promotori al pari di una medicina che uccide il malato?
Innanzitutto, che cosa è mai lo “spazio giudiziario europeo”? Uno spazio costituzionale unificato, dotato di pesi e contrappesi omogenei, di un sistema giuridico coerente, di una polizia unica, di criteri di formazione della prova identici? No! L’Europa, non ha nemmeno ancora assunto lo statuto di persona giuridica. L’Unione europea, non può firmare in quanto tale le convenzioni e i trattati internazionali. Di cosa parliamo dunque?
Vista da un altro continente, l’Europa appare uno spazio economico, finanziario e monetario, che cerca di accordarsi sul piano legislativo attraverso il principio di sussidiarietà. L’Europa politica è un nano, l’Europa militare balbetta, quanto all’Europa sociale essa è uno spettro (che s’aggira per i suoi Palazzi). L’Europa è un fantasma costituzionale e lo spazio giudiziario un inganno, il luogo dell’arbitrario puro.
Il riferimento è implicito ai movimenti che hanno partecipato alle mobilitazioni di Seattle, Göteborg, Nizza, Praga, Genova, fa chiaramente parte dei retropensieri dei redattori del testo, i quali non si nascondono affatto quando suggeriscono senza particolari pudori che “ciò potrebbe riguardare atti di violenza urbana, per esempio”, oppure l’occupazione di immobili appartenenti a società pubbliche, l’azione di gruppi di disoccupati, precari, immigrati che occupano le prefetture per rivendicare la loro regolarizzazione, i tradizionali “colpi di mano” o le azioni di disobbedienza civile e sociale; sarebbero già largamente azioni da considerare, secondo i nuovi criteri, degli “atti terroristici”.
La legislazione d’emergenza, in Italia, è stata l’apripista di un processo di involuzione autoritaria, che, interdendo definitivamente la società reale dal luogo delle decisioni, ha finito per esternalizzare il ruolo dei poteri forti fissandolo nel tecnicismo della governabilità.
Dall’approvazione della legge reale (1975) è un continuo varo di provvedimenti che ledono i diritti e di fatto danno immunità alle forze dell’ordine che compiono violenze, soprusi e molte volte omicidi.
Basti pensare all’approvazione dei pacchetti sicurezz: un mix micidiale di norme razziste e xenofobe con provvedimenti intesi a colpire le lotte e il conflitto sociale.
La risposta che il governo da alla crisi economica e sociale è la dichiarazione di guerra al più povero. Se aiuti un migrante clandestino rischi di finire in galera, a differenza di chi istiga all’odio razziale e diventa ministro della repubblica.
Se ti opponi per reclamare diritti, reddito, casa c’è il rischio di essere brutalmente picchiati, torturati e arrestati. Chi invece ha prodotto la violenza, ha calpestato i più elementari diritti (come è accaduto a Genova durante il G8 nel luglio 2001) viene assolto, promosso e premiato come un “eroe” dello Stato.
Non è un caso che la strategia di emergenza sulla sicurezza si concentra sugli aspetti di mediatizzati del malessere sociale.
In questo contesto avvengono anche le tante violenze da parte delle forze di polizia contro i migranti, giovani con look alternativi, ultras e tossicodipendenti.
Quante volte abbiamo sentito dire ad esempio che Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi in fondo erano due drogati? Oppure che Gabriele Sandri era un teppista da stadio o Carlo Giuliani un punkbestia noglobal?
Dove sono oggi le culture critiche, gli intellettuali? Perché in pochi si indignano contro queste barbarie che quotidianamente si compiono nel nostro “democratico” paese? E mai possibile che non ci sia nessuno che grida che oggi le carceri italiane sono delle proprie discariche sociali in cui 600 detenuti si sono suicidati nell’ultimo decennio?
E questa l’Italia dove alla corruzione di un governo populista, reazionario, razzista e fascistoide, l’unica opposizione che scalda gli animi di tanti antiberlusconiani sembra quella che vuole più Stato, che chiede più trasparenza, merito, legalità, manette e polizia. Uno Stato che serve a difesa della propria debolezza sociale, prima che politica.
Legalità e giustizia contro fragilità sociale, declassamento e precarietà. Per essere chiari si invoca lo Stato invece di far male ai padroni.
Non stupisce allora che la “cultura della legalità” tanto acclamata e bandiera dell’antiberlusconismo si traduce nell’invocare la necessità della tutela dell’ordine pubblico, attraverso l’intensificazione della repressione di tipo penale e amministrativo. Tale operazione sottintende una concezione autoritaria volta a privilegiare la dimensione della “sicurezza” rispetto a quello dell’intervento sociale.
La “cultura della legalità” ha conseguito risultati meno che mediocri nella lotta al crimine organizzato, alla mafia, alla camorra. In cambio ha avuto effetti devastanti sia sulle scelte politiche dei governi, sia sull’involuzione della mentalità del paese o meglio sull’affermarsi di un opinione pubblica essenzialmente repressiva e regressiva.
In Italia, l’equazione “immigrati uguale criminali” è diventato uno slogan agitato sia da destra che da larghi settori dell’ opposizione. Non è un caso se un idolo delle folli dell’antiberlusconismo come Beppe Grillo, può tranquillamente eccitare il suo popolo sbraitando contro gli immigrati che invadono i sacri confini della patria.
Come risulta, anche da recenti ricerche, il panico in questione è il frutto del corto circuito creato a metà degli anni ’90 tra l’agitazione di comitati di “cittadini” sorti sulle ceneri dei partiti tradizionali e le strumentalizzazioni dei partiti più o meno xenofobi come la Lega e An e il sensazionalismo dei media. Sarebbe bastato consultare qualche libro di Bauman per riflettere sul fatto che gli immigrati, al di la del loro reale coinvolgimento nella microcriminalità, diventano il parafulmine di una insicurezza e precarietà diffusa, in gran parte prodotta dallo smantellamento dello stato sociale.
Ma i partiti del centro-sinistra (Pd e Idv), opinion leader accreditati come i più incisivi oppositori a Berlusconi (Travaglio), sindaci di giunte “rosse” (Cofferati, Veltroni, Dominici, Chiamparino, Renzi) invece di svolgere un opera di informazione e, in sostanza, di riportare la realtà immaginaria e mediale ai fatti, hanno cavalcato le proteste nell’illusione di allargare il proprio consenso nell’elettorato moderato.
Com’era facilmente prevedibile questa “inimicizia dall’alto” si è rilevata un boomerang. Da una parte si sono legittimate le posizioni xenofobe della destra, dall’altra agli occhi dell’elettorato moderato, la responsabilità del “degrado” che tutti imputano agli immigrati non poteva che essere attribuita alla sinistra.
Inoltre dal G8 del 2001 a oggi sono numerosi i casi in cui la magistratura ha cercato di trasformare le lotte politiche in azioni puramente delinquenziali
Si parla di circa 15.000 persone sotto processo, interessano tutti i gangli attraverso i quali il movimento tentò di esprimersi nel luglio 2001: contrapposizione alle politiche liberiste, lotte sociali riguardanti il tema della precarietà (e con esso il diritto alla casa, ai servizi, al reddito), le lotte anti repressive degli anarchici, le lotte dei migranti. Nel filone repressivo post G8, non manca la criminalizzazione di chiunque si occupi di precarietà (lavorativa, sociale, di esistenza): ecco i processi contro gli attivisti della MayDay del 2004 a Milano, il processo per l’esproprio proletario del 6 novembre a Roma, gli innumerevoli processi per azioni contro la guerra, il reddito, i migranti e la casa (Bologna, Roma e Firenze con le condanne a 7 anni per chi manifestò al consolato Usa del 13 maggio 1999). Anche in questo caso le mosse delle varie procure, sembrano inserirsi nel solco ideologico delle nuove tecniche repressive: disconoscere il primato politico delle varie forme di opposizione, per sancirne la resa giudiziaria delinquenziale e tramutare ogni affaire politico in ordine pubblico.
La dimensione del fenomeno e la qualità delle imputazioni mosse indica la volontà di taluni apparati dello Stato e della stessa Magistratura di procedere ad una vera e propria criminalizzazione di istanze che dovrebbero trovare ben altre sedi e modalità di risposta.
Crediamo sia necessaria e non più rimandabile una campagna politica affinché ci sia un provvedimento generale che dia il segnale di un riconoscimento politico alle lotte di questi anni, che porti necessariamente alla depenalizzazione di una serie di reati, spesso ereditati dal vecchio Codice Rocco, che sanzionano stili di vita, comportamenti sociali diffusi o persino le libere opinioni. Una campagna per il riconoscimento della legittimità di alcune forme di lotta, entrati nella prassi dei movimenti e dei comitati territoriali. Cosi come non è più rinviabile una campagna per l’abrogazione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e della Fini-Giovanardi sulle tossicopidendenze. Leggi che hanno riempito le carceri e fatto vittime.
La democrazia non può essere difesa senza svilupparla, approfondirla, radicalizzarla, poiché non si tratta di un catechismo, di un codice o di un insieme di norme e sacri principi, ma di un agire politico calato nel suo tempo. Bisogna agire avendo la consapevolezza che Berlusconi non lo si combatte cavalcando malumori e frustrazioni, ma costruendo politica e pratica di opposizione che si nutre di conflitto sociale e di disobbedienze, e che oggi tutto questo non esiste né nell’opposizione parlamentare ma neanche nel senso comune ispirato dai vari Grillo e Travaglio.
Per il momento, sarà saggio almeno accogliere il suggerimento di Zarathustra: “ diffidate di coloro nei quali è potente l’istinto di punire

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