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Repressione del dissenso, patriarcato e guerra

Repressione del dissenso, patriarcato, guerra: sono tre dimensioni dell’oscurità che stiamo attraversando; il regime di guerra impregna episodi locali così come tragedie internazionali. E opporsi, con il proprio corpo, alla violenza delle istituzioni è in sé e per sé un atto politico: l’esserci; per affermare un diritto, esprimere solidarietà.

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La presenza ex-ante e le cariche ex-post della polizia al Campus Einaudi dell’Università di Torino suggeriscono un’analisi su più livelli: politico e insieme intellettuale, locale e al contempo globale. Il primo è quello della repressione del dissenso, il cui inasprirsi sotto un governo post-fascista è stato preparato – bisogna ricordarlo, per evitare distorsioni ottiche – da una gestione del conflitto sociale come mero problema di ordine pubblico lungo tutta la storia repubblicana. Del resto, se non si fanno i conti con il proprio passato (fascista), non ci si può aspettare un esito diverso. All’interno di questo quadro, esiste – come più volte rammentato su questo sito – una specificità torinese, che, a partire dagli anni Novanta (ossia quando l’onda lunga della radicalizzazione è finita da un pezzo), nel susseguirsi di giunte di centrosinistra, si esplicita nell’ostinazione a zittire tutto ciò che si muove a sinistra del Pd (prima Pds e Ds) e dei suoi alleati: che sia il movimento No Tav, quello studentesco (perfino quando a manifestare sono studentesse e studenti delle superiori) e, più recentemente, l’attivismo ambientale e climatico. Se la riuscita del corteo del 1° maggio – dove per riuscita va inteso che, per la prima volta dopo molti lustri, lo spezzone sociale non è stato caricato per impedirgli di raggiungere piazza San Carlo – aveva suscitato qualche illusione, bene, torniamo con i piedi per terra. E facciamoci qualche domanda sulla pervicacia di questa criminalizzazione della protesta sociale nella città dell’Autunno caldo: è stata Torino di nuovo un laboratorio, ma stavolta della gestione del dissenso in un’epoca in cui, sconfitti il movimento operaio e i gruppi rivoluzionari, la borghesia “illuminata” ha deciso che la partecipazione politica, il conflitto – in una parola: la democrazia – andavano trattati semplicemente come un costo, da abbattere il più possibile? D’altronde, la città è stata, soprattutto con le giunte Chiamparino (due comunali e una regionale), la palestra del radicale cambio di rotta del partito succeduto al Pci nella scelta dei suoi referenti sociali: dal lavoro dipendente all’impresa. Ben venga che oggi alcuni suoi parlamentari chiedano conto al ministro dell’Interno di quanto accaduto al Campus, ma il loro partito negli ultimi trent’anni non abitava su Marte.

Qualche riflessione va fatta anche sulla polizia: non solo per capire a quali criteri risponda la loro condotta in piazza e dentro le Università, ma perché nulla sappiamo di come venga formata; su quali testi e metodi e visioni della società. Alessandra Algostino, la docente manganellata dagli agenti insieme con la collega Alice Cauduro, ha fatto notare, in un’intervista a il manifesto del 7 dicembre, il divario fra la lentezza con cui le forze dell’ordine rispondono alle denunce delle donne e la sollecitudine con cui la polizia ha fatto da angelo custode agli studenti del FUAN (rompendo anche un braccio a una studentessa). Divario amplificato dalla manciata di ore intercorse fra i funerali di Giulia Cecchettin e le cariche al Campus Einaudi. Ma questa concomitanza assume un valore simbolico ancora più tetro: perché dopo giorni in cui media e politica hanno pronunciato, con un unanimismo alquanto sospetto, parole altisonanti contro la violenza di genere, i tutori dell’ordine hanno colpito – per giunta a tensioni archiviate – due donne, che si erano interposte con i loro corpi fra agenti e studenti/studentesse. Poteva forse capitare anche a docenti uomini (a proposito: i colleghi dove erano?), ma resta il fatto che lì c’erano Alessandra e Alice. L’ennesima conferma che, quando si parla del corpo delle donne, il confine tra la sua disponibilità (l’asservimento alla società patriarcale) e la sua dispensabilità (la condanna all’irrilevanza, qualora si sottragga alle regole del gioco) può essere molto sottile. E opporsi, con il proprio corpo, alla violenza delle istituzioni è in sé e per sé un atto politico: l’esserci; per affermare un diritto, esprimere solidarietà.

La reazione dell’Università di Torino è stata cerchiobottista: una condanna di tutte le forme di violenza che però non nomina quella poliziesca. Convocare un’assemblea straordinaria del personale, o – incredibile a dirsi – indire uno sciopero di solidarietà almeno con le colleghe restituirebbe un po’ di quel prestigio che non si misura solo sulla base di “parametri” decisivi per l’assegnazione di fondi. Va detto che da molto tempo le Università europee, con le dovute eccezioni, sono silenti al cospetto delle catastrofi della nostra epoca (migrazioni, clima, guerre): spendono più tempo a inseguire finanziamenti privati (compresi quelli dell’industria bellica) che non a contribuire al dibattito pubblico, e quando lo fanno non di rado introiettano la polarizzazione del lessico mediatico.

Tuttavia la complessità della conoscenza e il suo pluralismo si affievoliscono anche per l’attacco globale a filoni di studi come quelli postcoloniali e di genere (da noi arrivati con vent’anni di ritardo) nonché al pensiero critico in generale. La destra – negli USA come in Ungheria, in Svezia come in Francia – sta tentando di estirparli dalle Università, stigmatizzandoli come discriminatori o addirittura criminalizzandoli come fucina di terrorismo. Nel Regno Unito pochi mesi fa è stata approvata la “Legge per la libertà di espressione nelle Università” per consentire a individui e gruppi politicamente scorretti di partecipare al confronto pubblico. Il moderatissimo Labour Party ammoniva, nel dibattito precedente l’approvazione dell’atto, che i gruppi antisemiti ne avrebbero approfittato. Oggi a essere zittitɜ sono docenti e studenti e studentesse che chiedono l’immediato cessate il fuoco a Gaza. Già, perché da anni e anni la crescita dell’antisemitismo va di pari passo con l’aumento dell’islamofobia: due facce della stessa cultura discriminatoria e dunque antidemocratica. Le comunità ebraiche che, traumatizzate dal 7 ottobre, ricevono esponenti istituzionali dell’estrema destra dimenticano una regola preziosa: il nemico del nostro nemico non è necessariamente nostro amico. Soprattutto se è figlio o nipote, politicamente parlando, di chi, in Italia o altrove, ha consegnato le famiglie ebraiche ai nazisti.

Oltre alla concomitanza fra i funerali di Giulia Cecchettin e le manganellate alle due docenti, mi colpisce un’altra analogia. Prima del 7 ottobre – leggo sull’ottimo sito “Jewish Currents” – attivistɜ israelianɜ e internazionali ricorrevano a quella che viene definita “presenza protettiva”: sfruttavano la loro nazionalità, che lɜ rendeva non facilmente perseguibili, per fare da scudo con i loro corpi alle famiglie palestinesi in Cisgiordania, contando sull’effetto deterrente che il loro esserci avrebbe avuto sulla violenza dei coloni e dell’esercito israeliano. Immagino che anche Algostino e Cauduro abbiano pensato, qualificandosi come docenti, di poter spendere la loro posizione di relativo privilegio per garantire i diritti di soggetti in quel momento vulnerabili (studenti e studentesse). Sappiamo come è andata a finire. Mutatis mutandis, la dinamica è la stessa che le e i militanti non violentɜ israelianɜ hanno sperimentato. Il 12 ottobre Ta’ayush, una delle tante associazioni miste israelo-palestinesi che si oppongono fisicamente, e pacificamente, all’occupazione israeliana, ha avuto un’amara sorpresa: non solo la presenza di cinque suoi militanti non ha affatto dissuaso i coloni dall’attaccare il villaggio di Wadi a-Seek, ma gli israeliani sono stati a loro volta sequestrati, al pari dei tre palestinesi che cercavano di proteggere. Questi ultimi sono stati torturati, mentre le persone di nazionalità israeliana, in virtù del loro relativo privilegio, sono state “solo” legate, strattonate e chiuse in una stanza. L’accaduto ha reso più pericolosa e meno efficace una forma di solidarietà che, soprattutto negli ultimi anni, quando la violenza coloniale si è intensificata, ha determinato il rinvio o addirittura l’annullamento della prevista distruzione di alcuni villaggi.

Repressione del dissenso, patriarcato, guerra: sono tre dimensioni dell’oscurità che stiamo attraversando; il regime di guerra impregna episodi locali così come tragedie internazionali. Mentre scrivo, la polizia, alla stazione Porta Nuova di Torino, ha caricato le e i manifestanti direttɜ alla marcia No Tav a Bussoleno. Ma solo perché – a detta della polizia – non avevano il biglietto…

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