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Con il pretesto della sicurezza: Ordine sociale e controllo della mobilità individuale nelle politiche securitarie italiane

Un commento di Enrico Gargiulo, ricercatore presso l’Università del Piemonte orientale, a margine dei decreti Minniti su immigrazione e sicurezza.

Il Decreto Minniti è l’ultima tappa di un lungo percorso politico, che ha avuto inizio una ventina di anni fa con la nascita delle politiche di sicurezza urbana ma che affonda le sue radici in visioni e rappresentazioni della società elaborate in fasi storiche precedenti, e in particolare nell’Italia liberale e nel periodo fascista. Si tratta, in sintesi, di un progetto di controllo sociale che prevede l’impiego di specifici strumenti per disciplinare categorie di persone considerate pericolose o sgradite.

I contenuti e i potenziali effetti del Decreto Minniti sono stati già analizzati, in questo blog o in altre sedi, da diversi studiosi. L’intervento qui proposto, dunque, non intende aggiungere elementi interpretativi riguardo alle implicazioni giuridiche o alle ricadute sociali del dispositivo normativo introdotto dall’attuale ministro dell’interno, né ha l’ambizione di fornire un quadro storico rigoroso ed esaustivo in relazione alle politiche di controllo sociale. Più semplicemente, si propone di sviluppare un ragionamento che metta in relazione questo provvedimento con misure relative a materie differenti ma strettamente collegate alla questione della sicurezza e delle sue diverse – e ambigue – interpretazioni.

Con l’emanazione del Decreto legge n. 14 del 2017 [1], la sicurezza, nuovamente, è impiegata come pretesto per portare avanti una visione morale e sociale dell’ordine pubblico. Un ordine che, nonostante i proclami sulla centralità dello stato di diritto, si configura come ideale e non semplicemente materiale, essendo orientato a sanzionare idee, stili e condotte di vita – spesso, peraltro, non dipendenti dalla volontà delle persone – più che a reprimere atti che mettono effettivamente a rischio la sicurezza individuale.

Questa visione ha una portata ben più ampia delle materie coinvolte dal Decreto Minniti, investendo altri ambiti – tra cui la questione abitativa e l’anagrafe, ma anche la gestione della conflittualità sociale – e mirando a governare la mobilità spaziale delle persone coinvolte.

La costruzione di un ordine sociale desiderato – per agganciarci immediatamente al passato prossimo e al presente dell’Italia – passa per la politicizzazione dell’accesso all’iscrizione anagrafica attuata dal Piano casa. Con l’art. 5 di questa norma, che vieta a chi occupa abusivamente un immobile di prendervi la residenza e di chiedere l’allaccio ai pubblici servizi [2], la registrazione comunale diventa uno strumento di attacco a categorie politicamente indesiderate e considerate socialmente pericolose: tra tutte, i movimenti di lotta per la casa e i rifugiati e richiedenti asilo.

Ma la traduzione materiale di una certa idea di ordine sociale prende corpo anche per mezzo di un uso strumentale della categoria di “decoro” [3] e dello stato di conservazione delle abitazioni. Anche in questo caso, è la residenza a costituire il perno delle iniziative escludenti: con il Pacchetto sicurezza del 2009, il governo allora in carica ha provato a istituire un nesso tra le condizioni dell’alloggio e il diritto all’iscrizione anagrafica. La norma effettivamente emanata è senza dubbio meno drastica rispetto alle proposte iniziali [4]: i controlli sullo stato del luogo di dimora non inficiano il riconoscimento della residenza; un appartamento “indecoroso”, dunque, non rappresenta un impedimento all’iscrizione. Seppur ridimensionate durante l’iter di approvazione della legge, le intenzioni dei promotori del Pacchetto sicurezza rappresentano tuttavia un segnale chiaro e inquietante: chi non può permettersi condizioni di vita “decorose” merita di essere tagliato fuori dai diritti. La residenza, infatti, è attualmente, in Italia, il canale di accesso a benefici e servizi di importanza fondamentale.

La costruzione di un ordine sociale gerarchico, stratificato e selettivo non è preoccupante soltanto in quanto costituisce un obiettivo politico, ma anche perché comporta l’impiego di un certo tipo di strumenti. La valorizzazione di misure e provvedimenti amministrativi, che enfatizzano il ruolo dei sindaci e dei questori senza coinvolgere la magistratura, ha un significato ben preciso: il ricorso a mezzi di tipo “tecnico”, di facile impiego e di rapida attuazione, serve a conseguire più facilmente e rapidamente, e spesso in maniera opaca e poco visibile, obiettivi altamente politici, ossia – in questo caso – un certo “disegno” della popolazione locale, escludente nei confronti delle categorie indesiderate e “indecorose”.

La battaglia per il decoro, dunque, deve essere letta in stretta relazione con altri conflitti politici in cui l’impiego di strumenti amministrativi è enormemente diffuso. Gli avvisi orali e i fogli di via comminati in val Susa o nelle città in cui sono attivi movimenti sociali poco “docili” sono emblematici, oltre che dello scarto tra fini dichiarati e obiettivi reali, dell’uso improprio di queste misure. Con il pretesto della sicurezza, dispositivi che agiscono in assenza della commissione di reati veri e propri, pensati, in altri momenti storici, per colpire individui “dediti a traffici delittuosi” o “che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”, sono adoperati per disciplinare attivisti che, agli occhi delle istituzioni, rappresentano una minaccia per un certo ordine sociale e politico o persone che, con la loro semplice presenza e a prescindere dai loro comportamenti, disturbano la componente “legittima” della cittadinanza.

A seconda degli ambiti in cui la sicurezza e il decoro sono invocati, la posta in gioco delle iniziative escludenti e repressive può essere differente. Nel campo anagrafico, il pieno riconoscimento come cittadini locali e l’effettiva esigibilità dei diritti sono questioni centrali, mentre in val Susa o nei luoghi in cui sono attivi movimenti sociali, l’avvio di un processo di criminalizzazione, amministrativa prima e penale poi, è un obiettivo strategico.

Ma, al di là di queste differenze, un elemento ricorre costantemente all’interno del progetto di ordine sociale qui descritto: il controllo sulla mobilità individuale. Il monopolio sulla libertà di movimento legittima, detenuto dagli stati [5], è esercitato non soltanto sui confini esterni – interessando quindi gli stranieri “irregolari”, passibili di espulsione dal territorio italiano –, ma anche sui confini interni – traducendosi nell’allontanamento da comuni, o da porzioni specifiche dei territori comunali, di soggetti considerati estranei al corpo sociale e minacciosi per l’ordine desiderato.

Il potere di allontanare o di vietare l’accesso a determinate aree o luoghi della città, attribuito ai sindaci e ai questori dal Decreto Minniti e motivato sulla base della necessità di proteggere i contesti urbani da “degrado” e “incuria”, sembra reintrodurre dalla finestra ciò che sul finire degli anni ottanta era stato espulso dalla porta. Nel 1988, infatti, la legge 327 ha modificato la legge 1423 del 1956 che disciplinava il foglio di via e ridefinito le categorie oggetto di provvedimenti di espulsione dai territori comunali, eliminando i riferimenti a persone che mettono in atto “comportamenti contrari alla morale pubblica”, agli “oziosi” e ai “vagabondi abituali, validi al lavoro”. Adesso, con i “Daspo urbani”, queste categorie sembrano essere nuovamente passibili di allontanamento, sebbene da aree intra-urbane e non da un intero comune: commercianti “abusivi”, lavoratori/lavoratrici sessuali, persone con dipendenze da sostanze, “accattoni” più o meno “molesti” (ma l’elenco potrebbe senza dubbio continuare) sono oggetto specifico di attenzione da parte delle autorità locali.

Uno scenario di questo tipo, con le dovute differenze, ricorda dunque un’Italia in cui una visione esplicitamente etica dell’ordine pubblico legittimava politicamente, e consentiva giuridicamente, il controllo sulla mobilità di persone considerate “immorali”, e rimanda alle leggi contro l’urbanesimo (1939-1961), che consentivano ai prefetti di usare i fogli di via contro le persone prive di residenza perché carenti di un lavoro regolare nel comune in cui vivevano [6].

Allo stato attuale, infatti, le categorie a cui la residenza è negata – “legittimamente”, sulla base del Piano casa, o del tutto illegittimamente, per effetto dei numerosi provvedimenti e delle prassi burocratiche escludenti impiegate da numerosi comuni – sono in diversi casi composte dagli stessi tipi di persone che sono facilmente oggetto di: Daspo urbani – perché magari vivono in strada o in alloggi di fortuna, offendendo così il “decoro” –, fogli di via – in quanto “socialmente pericolose”, avendo ad esempio “osato” occupare un immobile e resistere a un’azione di sgombero – o provvedimenti di espulsione dal territorio italiano – se straniere.

Del resto, i predecessori di Minniti nel ruolo di “ministri della sicurezza” hanno intrapreso azioni che vanno esattamente in questa direzione, creando le condizioni per l’innesco di articolati meccanismi di esclusione, che coinvolgono diversi attori e differenti competenze: ad esempio, la legge 125 del 2008, seconda parte del Pacchetto sicurezza emanato da Maroni, riconosce ai sindaci la facoltà di segnalare “alle competenti autorità, giudiziaria o di pubblica sicurezza, la condizione irregolare dello straniero o del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione europea, per la eventuale adozione di provvedimenti di espulsione o di allontanamento dal territorio dello Stato”.

La condizione di “irregolarità” di cui si parla in questa sede, come ben noto, è spesso provocata, in aperta violazione della normativa statale, dalle amministrazioni locali e dalle questure. Se le prime, con frequenza, restringono i requisiti per l’iscrizione anagrafica dei cittadini comunitari, rendendoli quindi “irregolari” [7], e richiedono documenti aggiuntivi ai cittadini extracomunitari, le seconde, in diversi casi, rifiutano di rinnovare i permessi di soggiorno – in particolare a richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale – sulla base della mancanza della residenza, come evidenziato anche da una circolare del Ministero dell’interno del 18 maggio del 2015, che esorta le questure a interrompere questa prassi e le prefetture a vigilare meglio sulle procedure di registrazione.

La sicurezza, dunque, è una specie di mantra continuamente e ripetutamente invocato per giustificare e legittimare il disegno di un ordine sociale selettivo ed escludente. Un mantra che sembra essere gradito a governi e ministri tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra.

Da questa prospettiva, la sicurezza, intesa nelle accezioni in cui è impiegata nei Decreti e nelle norme dell’Italia degli ultimi vent’anni, sembra essere una nozione difficilmente democratizzabile e umanizzabile. Del resto, come sostiene Mark Neocleous in Critique of security (2008, Edinburgh University Press), questa nozione, ben più della categoria di “libertà”, costituisce il concetto chiave della società borghese e una potente tecnologia politica di governo delle popolazioni e di protezione della proprietà privata. La sicurezza, in altre parole, è un “dono dello stato” agli attori economici che viene però rappresentato come un bene collettivo. Forse allora, richiamando la tesi di fondo del libro di Neocleous, è arrivato il momento di non limitarsi a riformare questa categoria, ma di restituire interamente il dono.

Enrico Gargiulo

Note:

1 Nel momento in cui questo contributo viene scritto, il percorso di conversione in legge del Decreto Minniti non è ancora terminato. Il testo iniziale del dispositivo potrebbe subire quindi rilevanti modifiche.

2 I contenuti dell’art. 5 sono stati successivamente smussati da alcune circolari ministeriali e da un emendamento al Decreto sicurezza. Quest’ultimo, se confermato al termine dell’iter di conversione in legge del DL, consentirebbe ai sindaci, in sostanza, di derogare al divieto di iscrizione “in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela e a tutela delle condizioni igienico-sanitarie”.

3 Per approfondimenti sull’uso strumentale del “decoro” si rimanda a T. Pitch, 2013, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza.

4 Su questo punto, e più in generale sui diversi tentativi compiuti negli anni di legare la residenza alle condizioni abitative, cfr. F. Mariani, 2010, Iscrizione anagrafica e domiciliation: un breve confronto tra le istanze di sicurezza italiane e le esigenze di coesione sociale francesi, in «Diritto, Immigrazione e Cittadinanza», 12, 1.

5 Per approfondimenti su questa categoria e sulle sue implicazioni storiche e teoriche cfr. J. Torpey, 1998, Coming and Going: On the State Monopolization of the Legitimate “Means of Movement”, in «Sociological Theory», 16, 3.

6 Su questo punto, e più in generale sulle leggi contro l’urbanesimo, si rimanda a S. Gallo, 2012, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, Laterza.

7 I cittadini comunitari a partire dal 2007 non sono obbligati a disporre del permesso di soggiorno ma sono tenuti, se intenzionati a soggiornare sul territorio italiano per più di tre mesi, a iscriversi all’anagrafe, dimostrando di possedere i requisiti di carattere economico-lavorativo stabiliti dal d.lgs. n. 30, che va ad attuare la Direttiva 2004/38/CE, e dai decreti e dalle circolari che lo hanno successivamente integrato e modificato. Per questa categoria di persone, dunque, la residenza ha sostituito di fatto il permesso di soggiorno quale strumento di controllo della regolarità della presenza nel territorio italiano.


fonte post:

Gargiulo E. (2017), “Con il pretesto della sicurezza: ordine sociale e controllo della mobilità individuale nelle politiche securitarie italiane”, in Studi sulla questione criminale online, al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2017/03/27/con-il-pretesto-della-sicurezza-di-enrico-gargiulo/

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