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Non è un contenzioso tra buonisti e razzisti, ma un sistema disfunzionale che implode. Questione migratoria, tifoseria e opinionismo

Se ne parla tutti i giorni dei migranti. Io ne parlo, leggo e scrivo in continuazione. È diventato progressivamente un argomento di massa. I migranti sono stati collegati, da un incrocio di discorsi plurimi, ad un ampia rosa di questioni e situazioni. Quasi tutte ammantate da un’aurea di crescente problematicità. I migranti sono stati chiamati in causa per argomentare la crisi economica, quella dei valori tradizionali, la disoccupazione, la sicurezza, il terrorismo, l’ordine pubblico, il decoro urbano, il crollo del welfare state, del successo formativo dell’istruzione pubblica, e perfino il sovraffollamento delle carceri. Qualcuno parla in modo esplicito di culture inferiori e del rischio di una sostituzione etnica, qualcuno di scontro religioso, qualcuno del diritto alla proprietà privata su casa sua.

Dall’entrata in vigore dell’accordo Schengen ad oggi, le conseguenze prodotte dal sistema dei visti sono quotidianamente osservabili nella tragedia continua della migrazione clandestina. L’altissimo numero di morti nel Mar Mediterraneo, nei deserti africani e a ridosso della costa libica, tra le nevi alpine o nell’intercapedine di qualche camion sulle autostrade, le dispersioni di uomini, donne e minori; tutto questo è l’effetto concreto della politica di gestione dei flussi migratori portata avanti dall’Europa.
Il sistema d’accoglienza con cui si vorrebbe dar seguito all’ingresso negato ma ad ogni modo avvenuto di cittadini extra-europei trabocca di non sense, paradossi, e spazi fertili per la proliferazione di speculazioni. Irretisce il migrante che al suo interno si configura come essere non pensante e più semplicemente bisognoso di accudimento come gli infanti, indispettisce gli italiani che percepiscono disparità di trattamento e attenzione verso le piccole e grandi tragedie personali da cui a loro volta non sono esenti.

Tra favorevoli e contrari rimpallano accuse reciproche di buonismo e/o razzismo, categorizzazioni che ingabbiano il confronto moderato e ragionato nella contrapposizioni netta di due blocchi non dialoganti. Ognuno paventa all’altro ipotetici epiloghi in relazione all’estremizzazione per assurdo delle posizioni prese. Il razzista al buonista: “Ma allora trasferiamo l’intera popolazione africana in Europa? Non possiamo mica stare tutti qui! È realismo.” E il buonista risponde: “Allora li lasciamo affogare tutti in mare? O morire di fame e guerra in Africa e Medio Oriente? Dobbiamo aprire le nostre porte. È umanità!”
E così, laddove è ovvia la non perseguibilità di entrambe le opzioni, il battibecco diventa una macchina celibe rispetto alla prospettiva di una risoluzione, ma prolifera di incomunicabilità e incomprensione.

Personalmente ritengo che le due prospettive siano accomunate da un medesimo errore, da un eguale atteggiamento verticalista, dalla medesima convinzione che l’Africa sia per definizione fame, violenza e sottosviluppo un po’ ovunque, dall’ovvietà per entrambe le fazioni che si giustifichi in questo il tentativo massificato di fuga. Le posizioni divergono solo al termine del discorso, nella scelta tra l’essere favorevoli o contrari ad accoglierli qui.
Infatti in molti tra le fila dei “buonisti”, non proferiscono parola alcuna sulla questione dei migranti effettivamente “economici”, e hanno consacrato la narrazione degli sbarchi alla retorica pietista -e ormai decisamente manierista- della disperazione dei figli dell’Africa. Narrazione che io non condivido, e che non credo favorisca una maggiore disponibilità e apertura in chi oggi si trincera dietro il perimetro difensivo eretto contro l’invasione. Molti “razzisti”, in maniera uguale e contraria, per dar prova di infondatezza all’accusa di disumanità e mantenere al contempo il diritto di rivendicare la chiusura dei porti e delle frontiere, narrano i migranti in arrivo come per lo più “esclusivamente economici”, perché quei pochi che hanno davvero fame e sete sono ovviamente benvenuti, e altrettanto ovviamente per nulla assomigliano ai figuri aitanti e di pretese soccorsi in mare.

La conoscenza di quanto ha cominciato ad accadere in Libia, tortura e riduzione in schiavitù, non è servita a sollecitare la politica e la società civile verso la rimessa in discussione dell’impianto normativo che regola la mobilità. I buonisti hanno usato l’immagine di quei corpi scheletrici e visivamente martoriati per fortificare gli argomenti del piano emotivo del discorso, per fare della migrazione una questione di garanzia di solidarietà e mutuo soccorso, e richiamare l’Europa agli oneri di chi ha l’onore e il plusvalore di detenere questa “superiore” possibilità. I razzisti dal canto loro, le hanno strumentalizzate per avere ulteriore prova di quanto brute e sottosviluppate siano queste genti africane che nulla sanno di rispetto della vita e civiltà, per ribadire che non c’è alcun motivo per cui dovremmo esser lieti di ritrovarcele in casa nostra; fare così della migrazione una questione di cultura, e dell’Europa il faro e presidio indiscusso del suo mantenimento e sviluppo.
Comunque vada, l’Europa è la terra promessa verso cui ognuno è in cammino, e l’Africa un posto dannato da cui ognuno è in fuga, o un purgatorio per anime in bilico tra l’inferno e il paradiso; il Mediterraneo una specie di varco dimensionale o porta santa verso la salvezza, uno stargate.

Mi piacerebbe poter dire a entrambi che questo punto di vista è davvero banale, incredibilmente infantile, completamente stereotipato.
Il corpo migrante, denutrito, violentato, morto o disperso, vittimizzato dalla legge, non dovrebbe essere il luogo di una speculazione semantica o letteraria, ma un condensato di accuse precise.

Moltissimi italiani non sanno davvero nulla rispetto al fatto che entrare in Europa regolarmente è quasi impossibile per i cittadini africani. Continuano a parlare di clandestini come coloro che volontariamente arrivano senza documenti, che li distruggono o li vendono, che celano la loro identità perché macchiata dell’onta di un pregresso non dichiarabile. Mi sembra assurdo! Non collegano il problema delle identificazioni né a quello dei visti che lo precede, né a quello dei rimpatri che lo segue. Immaginano che sui barconi ci siano i ricercati che non possono presentarsi in aeroporto, o più in generale lasciare il paese esibendo il documento d’identità. Molti altri invece immaginano i barconi pieni di persone affamate e perseguitate, in pericolo di vita, incapaci di edificare se stesse senza il nostro aiuto.

Entrambe le prospettive si caricano di lirismo e mitologia. Delinquenti o bisognosi. Questo è il massimo dell’ individualità concessa all’africano, le uniche dimensioni possibili del suo essere “umano”. E ancora, la discussione è sull’accoglierli o no. Ed è masochista accoglierli se sono delinquenti, disumano se sono bisognosi. Ci si accusa a vicenda di non voler vedere l’una o l’altra cosa, e si inflaziona la caccia alla prova provata di quel che si afferma.
A nessuno sembra interessare metter fine a questo circolo vizioso di pregiudizi, ne impelagarsi nell’approfondimento di grandi questioni geopolitiche ed economiche. A nessuno sembra interessare o “convenire” pretendere dai governi un impegno sincero e condiviso per rendere vivibili tutti i luoghi della terra. A nessuno sembra interessare che la migrazione è ciò che accade quando è in atto un viaggio, e che il viaggio è ciò che da sempre la storia dell’uomo eleva ad attività imprescindibile di crescita e conoscenza; ma che il viaggio è oggi per alcuni auspicato e per altri severamente vietato.

Questa Europa proibita ai cittadini africani, un Eden avvolto in un mito equivalente a quello che fu il mito dell’America per gli europei, incrementa col suo negarsi il desiderio di poter esser raggiunta e l’estremizzazione positiva di ciò che realmente è e ha da offrire.
Se un uomo potesse venire in aereo, cercare lavoro, e se trovato far arrivare la moglie e i figli, li metterebbe in viaggio nel deserto? O su un barcone precario e strapieno? Per cifre quadruple rispetto a quelle di un viaggio regolare, sicuro e confortevole? Se è un ricercato forse si! Ma in qualunque altro caso quasi sicuramente no!

Sicuramente a partire dall’Africa verso l’Europa sono in prevalenza persone che nella gerarchia delle loro società d’appartenenza non ricoprono gli ultimissimi posti. Un viaggio clandestino necessita di più risorse di quante ne richieda uno a norma di legge. Richiede più denaro, una migliore condizione fisica, e un tasso d’intraprendenza superiore all’ordinario. Una partenza clandestina è l’atto estremo e finale di una disobbedienza civile contro una costrizione che davvero, davvero, al di là di ogni propagandistico contradditorio, viola il principio di uguaglianza e il dovere morale di equità.

Mi piacerebbe che chiunque parlasse di migrazione avesse ben chiaro il funzionamento del sistema dei visti, e il volume delle richieste rifiutate nonostante fossero formalmente ineccepibili. Che tutti sapessero che si è agito -volontariamente o no- nella direzione del trasformare il sud del mondo in una riserva, luogo di confinamento, prigione a cielo aperto. Poi al contempo, certamente mi piacerebbe anche che gli africani smettessero di pensare all’Europa come ad un luogo migliore, e che impiegassero le loro energie per rendere effettive le molte “indipendenze” ancora soltanto formali piuttosto che per arrivare qui, ma quando scrivo in italiano parlo agli italiani, scrivo del mio paese e al mio paese, dei nostri paradossi e non dei loro. Dei loro parlo con loro, e questo per rispondere a chi mi accusa di accusare gli italiani, e di esser buonista ma nei loro confronti perfino razzista.

L’Europa ha chiuso la sua frontiera esterna ma si è adoperata per penetrare capillarmente quella africana che mai le ha opposto resistenza o ha mostrato diffidenza. La libertà di movimento, di circolazione di persone, merci e capitali, di rilocalizzazione di investimenti e imprese, deve esser trasversale o non può e non deve essere. Questo è quel che penso io.

Perché un italiano, che sia studente, professionista, imprenditore o pensionato, può decidere di collocarsi in 160 Paesi del mondo a far più o meno ciò che vuole, si tratti di turismo, affari o che so io, mentre un africano ha un range che oscilla tra i 20 e i 60 Paesi tra cui non figurano mai quelli con un Pil molto più alto di quello del Paese proprio?
Vogliamo continuare a parlare di invasione e a contrapporgli pietà e accoglienza, o provare a pensare che gli africani si stanno riappropriando di un diritto che gli è stato negato? Salvini sarebbe ugualmente antipatico ma indubbiamente più coerente se mentre urlasse di rimandarli a casa loro, aggiungesse un accenno al riportare tutti i connazionali a casa nostra. Nel 2017 sembra ne siano fuggiti altrove 250.000!

Ognuno a casa sua! Limitante ma coerente.
E invece l’africano deve restarsene in Africa, mentre l’italiano deve poter andare ovunque.
Se la chiusura dei confini assumesse invece il duplice significato di impedire gli ingressi ma anche al contempo le uscite? Se ci chiudessero dentro il confine politico del nostro Stato Nazione e non potessimo più uscirne? O se ci chiudessero dentro il confine politico della nostra Comunità Europea e non potessimo andare in America, Asia, Africa e Australia? Perché quando si parla di confini non si pensa mai all’eventualità che venga messa in discussione quella nostra di libertà di attraversarli? Davvero l’italiano non ha modo di discernere l’ingiustizia di fondo all’origine di tutto questo?

La piega presa dal dibattito pubblico sulla questione migratoria tradisce davvero il livello complessivo di disinformazione e ignoranza degli Italiani a riguardo. Trovo gravissimo che nessuna figura istituzionale si sia spesa per istruire le masse sulla realtà tecnica e oggettiva di gestione della mobilità. Che le figure politiche abbiano potuto approfittare dell’ingenuità e dell’emotività di cittadini inconsapevoli e provati per confezionare ad arte scenografie apocalittiche e spauracchi assortiti. Che gli sia stato facile reclutare inquisitori per una moderna caccia alle streghe, relegare la riflessione all’ombra di azioni avvincenti e “catartiche” come quelle di Caserta, e sentirsi “pure” per aver deciso d’esser “dure”.

Date a tutti i cittadini e le cittadine del mondo la possibilità di ottenere un passaporto e viaggiare, e vedremo se ad accadere sarà il completo trasferimento della popolazione africana in Italia, o la fine delle tragedie di confine.

Monica Scafati

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