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Noi detenute, maltrattate di più perché donne

Veri e propri «gironi dell’inferno» in cui finiscono anche neonati e in cui viene violata la femminilità. Carceri in cui si vive bene se si hanno i soldi.

«Tutti sbagliamo, tutti abbiamo sbagliato ma dateci la possibilità di vivere questi anni di carcere in modo dignitoso. La legge non ascolta nessuno». Giada ha trentadue anni, diversi dei quali passati nelle carceri italiane. Le donne nelle patrie galere sono meno di tremila, nemmeno il 5 per cento del totale dei detenuti. Sono una minoranza invisibile che sembra non avere voce, le loro storie sembrano schiacciate dalla preponderanza della controparte maschile. Eppure esistono. Sono le marginali dei marginali, condannate a scontare la pena in un universo totalitario fatto dagli uomini per gli uomini.

«Spesso le detenute soffrono gli stessi trattamenti degradati e disumani degli uomini. Non ci sono, salvo rarissimi casi, episodi di vera e propria violenza, ma maltrattamenti di tipo diverso. Essere donna in carcere richiede delle attenzioni e delle cure maggiori che troppo spesso le detenute non ricevono». Riccardo Arena, conduttore di RadioCarcere (una rubrica di Radio Radicale), grazie alle testimonianze di ex detenute ha spesso aperto spiragli su quel mondo sconosciuto che è la detenzione femminile. Un mondo che, a causa della mancata consapevolezza delle differenze di genere e della necessità di un diverso approccio, colpisce le donne proprio nella loro più intima femminilità.


La legge prevede che i bamnbini sotto i tre anni vivano in carcere insieme alle loro madri detenute.

I penitenziari riservati esclusivamente alle donne si contano sulle dita di una mano. La maggioranza delle detenute si trova in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. Il sovraffollamento è inevitabile: «Il carcere di Sollicciano può accogliere sessanta donne. Quando ero detenuta eravamo in centoventi, in una stanza singola dormivamo in tre e sui letti colava l’acqua che si infiltrava attraverso le pareti», ricorda Deny. La sua testimonianza potrebbe essere quella di Giada, di Silvia, di Francesca, Isabelle o Gabriella, che come lei hanno consegnato i propri ricordi ai microfoni di RadioCarcere. Testimonianze preziose, che ci permettono di guardare dentro una realtà troppo spesso nascosta. Sono poche le eccezioni, le fortunate che nel coro delle ex detenute possono raccontare esperienze positive. Tante, troppe donne, indipendentemente dal carcere di provenienza, denunciano il degrado, la sporcizia, il freddo, la muffa e l’umidità. Ricordano quelle stanze piene di donne, in cui l’umanità sembra perdersi. «Quando una esce da lì è una larva, vuota, vuota, vuota».

In questi «gironi dell’inferno» ci sono anche madri con i loro bambini. La legge italiana, infatti, permette loro di rimanere al fianco della madre fino ai tre anni. Chi non ha la fortuna di poter scontare la pena all’Icam, l’Istituto a custodia attenuata per madri detenute, deve crescere il figlio dietro le sbarre. Nonostante gli sforzi di alcune amministrazioni e associazioni, l’ambiente è troppo spesso inadatto a uno sviluppo sereno. Gabriella è stata incarcerata quando il figlio aveva undici mesi: per un anno e otto mesi il bambino è stato un «detenuto senza colpa». Anche le celle che accolgono i piccoli sono inadeguate, fredde e sovraffollate, mettendone a rischio persino la salute. Compiuti i tre anni, poi, arriva il momento del distacco: i piccoli devono lasciare il carcere. «Il mio ricordo è una valigia e il bambino che si volta dietro alla grata e mi dice “mamma dove mi stai mandando?”. Non te lo fanno nemmeno accompagnare, c’è l’agente che ti porta via il bambino dalle braccia che capisce che lo stai cacciando via da te». In carcere «vivi bene se hai un po’ di soldi». Se sei una «poverella» a volte non hai diritto nemmeno a carta igienica e assorbenti. Anche la femminilità è negata. Nel carcere di Terni, in un sacco nero dell’immondizia «ti danno un pacco di salva slip, se hai soldi riesci a comprarti gli assorbenti, altrimenti devi metterti in ginocchio, acchiappare qualche suora, che giù in refettorio trovi che ti gira intorno sfuggente, e pregarla: per favore ho il ciclo mi date degli assorbenti? Quando non ce li davano usavamo le pezze, strappavamo le lenzuola» confessa Giada. Oltretutto, denuncia in una lettera un’ex detenuta del carcere delle Vallette di Torino: «Si sospetta che i prezzi siano aumentati rispetto ai prezzi del supermercato, a volte la cosa risulta palese, quando il prezzo originario è ancora appiccicato sulla scatola da dove vengono distribuiti i prodotti. Dove va quel sovrapprezzo? Ad alimentare l’amministrazione carceraria che si lamenta di mancanza di fondi e di scarsità di strumenti?».

Le donne, però, non sono private solo di beni indispensabili. Spesso, anche il diritto alla salute viene loro negato. I medici troppo spesso non ci sono e se succede qualcosa in loro assenza «puoi solo stare lì a morire». Visite specialistiche o, addirittura, interventi d’emergenza non arrivano, o arrivano troppo tardi. «Vite che potevano essere salvate», come quella della donna morta per un ictus in attesa di controlli. Vite a rischio, come quelle di Isabelle e del suo bambino, nato prematuro: la donna stava male da giorni, ma quando le si sono rotte le acque ha dovuto aspettare oltre un’ora perché l’ambulanza la portasse al pronto soccorso. O come quella di Giulia: «Ero incinta. L’avevo dichiarato subito, loro non ci credevano, ma poi l’hanno scoperto: ho avuto minaccia d’aborto e hanno dovuto portarmi in ospedale di notte. Mi hanno messa sdraiata e ammanettata su un P-38 chiuso. Ho detto gentilmente a una delle due agenti che era con me dentro “pensa che vada dove?”. “Magari fai la furba”, mi ha risposto, nonostante non mi reggessi in piedi». Giulia ha perso il bambino ma questo non le ha garantito un trattamento meno disumano. L’hanno riportata in carcere con un blindato, seduta nonostante avesse abortito da pochissimo.

In carcere, poi, si entra sani e si esce malati. Come il figlio neonato di Isabelle che, nell’umidità del Bassone di Como, ha contratto l’asma. O come Laura, che forse dei figli non potrà mai averli: «Non avevo il ciclo da vari mesi, [nel carcere di Catania] mi dicevano che era a causa dello stress, ma io ho detto “facciamo le analisi, facciamo un dosaggio ormonale, non è normale”. Hanno anche pensato che io fossi incinta, mi hanno fatto il test, e quando hanno visto che era negativo hanno dato di nuovo la colpa allo stress. Quando finalmente mi hanno fatto il dosaggio ormonale, un ormone è risultato molto alto, ma mi hanno detto: “Non è niente, non è niente”. Quando sono uscita ho fatto tutti i controlli. Mi hanno detto che a causa di questo ormone così alto rischio la menopausa precoce e di diventare sterile a ventitré anni. Loro giocano con la vita delle persone e non se ne rendono conto».

Costanza Giannelli da popoff

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