Le parole sulla carcerazione di Nicoletta Dosio del Procuratore Generale della Repubblica di Torino, che ha evidentemente ritenuto di dover replicare alle molte critiche e proteste contro questo provvedimento nei confronti di una ex professoressa di lettere antiche, devono spingere ad una riflessione.
In primo luogo, ciò che il Procuratore non pare voler cogliere è il significato profondo della scelta della prof. Dosio, che non può certo essere semplificato in un rifiuto di presentare delle istanze. Decidere di non chiedere nulla, affermare che non si è disponibili ad essere carcerieri di sé stessi (queste le parole utilizzate dalla Dosio nel dire che non avrebbe rispettato eventuali restrizioni connesse ad una detenzione domiciliare), è stata la scelta consapevole di una donna che ha spiegato che non aveva nulla per cui doversi “riabilitare”. La Dosio è stata condannata ad un anno per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri perché aveva tenuto uno striscione, al bordo dell’autostrada, nel corso di una manifestazione No Tav che per circa un’ora aveva invitato gli automobilisti ad attraversare la barriera autostradale di Avigliana non pagando il pedaggio (con un danno di 777 euro alle autostrade). Una condotta che giustificava, secondo la Procura, una pena di ben tre anni (questa la pena chiesta in primo grado dal PM), e che ha comunque condotto alla condanna della Dosio a un anno di carcere.
Non stupisce, dunque, che alcuni (che indicano presunte scappatoie che non si sono volute percorrere) non vogliano cogliere il senso di estrema dignità e coerenza della decisione di non utilizzare quelle pur sacrosante misure alternative alla detenzione che esistono grazie ad anni di lotte (introdotti solo dopo oltre 25 anni dalla proclamazione della finalità rieducativa della pena che è sancita nella Costituzione repubblicana). Nulla ritiene di avere la Dosio per cui doversi rieducare, e nulla ritiene di aver fatto la Dosio per cui aver “meritato” un anno di carcere. Nulla ha dunque la Dosio da chiedere alla clemenza del sovrano, ed altro non può fare che subire quello che le viene imposto.
Quel che piuttosto con la sua scelta di coerenza e dignità la Dosio ha voluto scoprire e denunciare, facendo del suo corpo detenuto un’arma non violenta (contrapposta alla violenza delle istituzioni) è l’uso, anzi l’abuso, del sistema repressivo penale utilizzato contro il movimento No Tav in particolare, e contro tutti i movimenti che esprimono istanze, a volte ma non sempre radicali, di dissenso e conflitto sociale. Decine di processi, centinaia di indagati e condannati, misure di prevenzione richieste (come non pensare a chi era andato a combattere contro l’ISIS e al suo ritorno si è visto chiedere la sorveglianza speciale perchè era anche un No Tav) ed ottenute, fogli di via, sono l’unico modo che lo Stato ha trovato per rispondere alla protesta (a volte violenta certo, ma più spesso pacifica e non violenta, come proprio nel caso che ha portato alla condanna della Dosio) dei No Tav, e sono spesso l’unico modo che lo Stato trova per rispondere al conflitto sociale. Conflitto che, è bene precisare subito, non è antitetico alla democrazia, ma ne è anzi elemento essenziale di vitalità (laddove oggi, sempre di più, si vorrebbe una democrazia anestetizzata e fondamentalmente plebiscitaria). E allora Nicoletta Dosio (che non a caso e ben prima di dover temere questa carcerazione ha aderito a un movimento che ha voluto chiamarsi “antipenale” proprio per denunciare l’abuso del sistema penale nella regolazione dei conflitti sociali) non aveva altra scelta che rifiutarsi di chiedere scusa e non fuggire dal carcere nel quale ingiustamente la si è voluta rinchiudere.
Risposta repressiva, si diceva, dello Stato, perché Stato sono le Questure, Stato sono le Procure, Stato sono i Tribunali e le Corti di Appello: quando una manifestazione viene contrastata e repressa con lacrimogeni e manganelli, quando le persone vengono arrestate, processate e (a volte o spesso) condannate per aver manifestato, è lo Stato che sta lanciando lacrimogeni, che sta manganellando, che sta arrestando, processando, condannando. E quando queste sono le uniche risposte che lo Stato è un grado di mettere in campo contro il conflitto sociale ed il dissenso, come nel caso del movimento No Tav, allora ad entrare in crisi è la tenuta del sistema democratico.
Certo, si può (correttamente) obiettare che un giudice ha valutato che quelle condotte costituiscono reato, e che quindi ha condannato i suoi autori seguendo una procedura garantita dalla legge. Formalmente tutto vero: il problema è che quando si guardi al dato sostanziale (in quella tensione tra eguaglianza e giustizia formale ed eguaglianza e giustizia sostanziale che informa la nostra Costituzione, che impone di rimuovere ogni ostacolo che impedisce una piena – sostanziale e non meramente formale – realizzazione dell’eguaglianza e della giustizia) si vede che perseguire una determinata condotta è spesso frutto di una scelta di politica giudiziaria, che inquadrare un fatto in una determinata fattispecie è frutto di attività interpretativa non sempre e non solo tecnica ma spesso anche “politica” (quanto meno nel senso di aderente a quella che si ritiene la volontà o l’utilità della maggioranza dei consociati), che decidere di portare avanti un fascicolo o un altro non è (quasi) mai frutto del caso o del semplice ordine temporale ma deriva da precise e consapevoli scelte, che decidere di condannare ad una determinata pena è frutto di una scelta determinata (a volte) anche da valutazioni politiche (si noti che per i reati per i quali la Dosio è stata condannata la legge prevede una pena minima di quindici giorni. Decidere di condannare ad un anno ha quindi un preciso significato: nella senza della Corte di Appello che ha condannato Nicoletta Dosio ad un anno di reclusione si legge che “il collegamento degli imputati con l’ala più radicale e violenta del movimento No Tav e, di conseguenza, la pericolosità sociale”; ad essere punito duramente, più che il fatto di reato, è l’autore del fatto in quanto tale, in quanto parte di un movimento). Ed, ancora, che voler celebrare ogni processo per fatti legati al conflitto sociale con le forze dell’ordine massicciamente presenti e riconoscibili nelle aule giudiziarie (come a Torino accade, e come non accade invece nei “normali” processi per fatti anche gravi – omicidi, violenze sessuali, concussioni, etc) ha un significato che esula dalle accampate esigenze di ordine pubblico e disvela una volontà di costruzione mediatica del nemico (così come accade quado si decide di dare pubblicità mediatica all’una o all’altra operazione di polizia o della magistratura inquirente).
E allora diventa forse più agevole comprendere che l’esecuzione della pena detentiva di un anno di reclusione nei confronti di Nicoletta Dosio è solo l’ultima (probabilmente la meno discrezionale, ed in questo – ma forse solo in questo – ha ragione il Procuratore Generale di Torino) di una serie di valutazioni non solamente tecniche ma fondamentalmente politiche che hanno determinato le decisioni che – in questo come in moltissimi altri casi, a Torino contro il movimento No Tav come altrove verso ciò che è ritenuto conflittuale e distonico rispetto al volere omologato – hanno infine condotto al carcere.
Le sbarre che dal 30 dicembre circondano il corpo di Nicoletta Dosio ci impongono, quindi, a prendere atto che tutto ciò deve preoccuparci, interrogandoci su quel che questa discrezionale giustizializzazione della risposta a tutto ciò che si vuole considerare non coerente con l’”odine costituito” può comportare per quella che ancora aspira ad essere una democrazia.
Gianluca Vitale – Avvocato e Co Presidente Legal Team Italia
Leave a Comment