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L’asilo negato a chi fugge dalla guerra di Putin

La sfaldata coscienza democratica europea. Diversi governi dell’Unione europea hanno anticipato l’indisponibilità a proteggere chi si rifiuta di prestare servizio militare in Russia. Un cortocircuito che ben descrive il progressivo crollo del sistema giuridico della tutela dei diritti umani in atto in Europa e il logoramento del diritto d’asilo

di Gianfranco Schiavone

Decine di migliaia di persone, in particolare giovani, stanno fuggendo in queste ore dalla Federazione Russa per non partecipare all’arruolamento forzato imposto dal regime di Vladimir Putin, il quale, dopo numerose sconfitte militari, ricorre ora alla sua gioventù per inviarla in massa al massacro in una guerra di aggressione contraria al diritto internazionale.

In tali condizioni hanno diritto questi cittadini russi a fuggire e ad essere accolti in Europa? Il ministro degli Esteri estone Urmas Reinsalu ha dichiarato a Reuters che il “rifiuto di adempiere al proprio dovere civico in Russia o il desiderio di non farlo non costituiscono motivi sufficienti per ottenere l’asilo in un altro Paese”. Nelle stesse ore il ministro degli Esteri lettone Edgars Rinkevics ha detto che “per motivi di sicurezza, la Lettonia non rilascerà visti umanitari o di altro tipo a quei cittadini russi che evitano la mobilitazione né modificherà le restrizioni al passaggio di frontiera imposte ai cittadini russi con visto Schengen dal 19 settembre”. La Finlandia, che il 9 giugno aveva annunciato di voler persino valutare la costruzione di un muro di 1.300 chilometri lungo tutto il confine con la Russia, ha finora tenuto un profilo moderato ma il suo ministro degli Esteri, Pekka Haavisto, di fronte al rifiuto dei Paesi baltici e della Polonia di considerare validi i visti turistici Schengen rilasciati ai cittadini russi, ha dichiarato che la “Finlandia non vuole diventare un Paese di transito per i visti Schengen rilasciati da altri Stati”. Poco dopo il presidente Sauli Ninisto ha annunciato che chiuderà i confini ai turisti russi “per ridurre significativamente il numero di persone in arrivo in Finlandia dalla Russia”.

Le notizie di stampa di queste ore (25-26 settembre) indicano che al momento Lituania, Estonia, e persino Polonia, affermano che “non accetteranno le richieste di asilo” dei cittadini russi. Non è chiaro, in tali dichiarazioni, come intendono questi Paese agire concretamente in violazione delle leggi europee.

Nel diritto dell’Unione è infatti riconosciuto lo status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 a coloro che rischiano “azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini” (Direttiva 2011/95/Ue art. 9 paragrafo 1 lettera e) e in ciò rientrano con pacifica evidenza i cittadini russi che oggi rifiutano l’arruolamento. Anche tutti coloro che, sebbene non coscritti, rischiano di subire pene inaudite se si oppongono alla guerra in Ucraina sono ugualmente rifugiati, ai sensi della citata Convenzione, per il timore fondato di essere perseguitati per motivi di opinione politica. Qualcuno con competenze adeguate al caso dovrebbe spiegare al ministro estone che per il principio di non contraddizione, se il rifiuto di prestare servizio militare in Russia non costituisce ragione per riconoscere il diritto d’asilo in quanto equivale “al rifiuto di adempiere al proprio dovere civico in Russia”, la guerra di Putin contro l’Ucraina è perfettamente lecita.

Il Codice frontiere Schengen (Regolamento Ue 2016/399) dispone che può essere negato l’accesso a un cittadino di uno Stato terzo qualora egli sia “considerato una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri” (art. 6 paragrafo 1 lettera e) ed è indubbia, a parere di chi scrive, la necessità di una verifica attenta, in questo grave momento, sull’ingresso dei cittadini russi. Tuttavia la previsione normativa citata non è in contrasto in alcun modo con il diritto fondamentale di accedere alla protezione internazionale ed è lo stesso Codice Schengen a ribadirlo costantemente, fin dal considerando (36) che ricorda come il Codice è “attuato nel rispetto degli obblighi degli Stati membri in materia di protezione internazionale e di non respingimento”. All’articolo 3 sancisce che “il presente regolamento si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro, senza pregiudizio dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale, in particolare per quanto concerne il non respingimento”.

Le dichiarazioni di alcuni Stati dell’Ue -e le loro conseguenti scelte concrete- che affermano che si possa rifiutare il riconoscimento del diritto di asilo ai cittadini russi in fuga dal regime di Putin, e che si possa persino impedire a chi fugge il diritto di chiedere asilo alla frontiera o nel territorio, sono aberranti tanto sul piano giuridico quanto su quello etico.

Se guardiamo ora al Codice dei visti (Regolamento Ce 810/2009, come modificato dal Regolamento Ue 2019/1155) il diritto dell’Unione prevede la possibilità del rilascio di visti a territorialità limitata (ovvero validi solo in relazione al Paese europeo che li emette) “per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali” (art. 25 paragrafo 1 lettera a) lasciando amplissima discrezionalità agli Stati nel valutare se e quanti visti rilasciare. Non c’è infatti ancora -e in ciò il sistema europeo d’asilo evidenzia tutta la sua pochezza- uno strumento giuridico, né sotto forma di Direttiva, né di Regolamento, che disciplini un obbligo di intervento comune e coordinato tra i diversi Paesi, per il rilascio di visti umanitari e ne fissi procedure e condizioni. Nonostante ciò, quanto disposto dal vigente Codice dei visti consente pienamente agli Stati di gestire in modo flessibile e con massima attenzione ai profili di sicurezza, l’ingresso ordinato da Paesi terzi di persone in condizioni di pericolo e nulla vieta agli Stati medesimi di concordare tra loro un programma comune.

Alcuni potrebbero osservare che le scomposte reazioni politiche attuate da alcuni Paesi vanno inquadrate nella lacerante storia che i Paesi baltici e la Finlandia (e, ognuno con la sua diversa storia, i Paesi dell’Est Europa) hanno avuto con la Federazione Russa e soprattutto, prima di essa, con l’Urss. In queste osservazioni c’è della ragione perché di tal complesso quadro storico bisogna tenere conto per comprendere le paure del presente; parimenti però va fatta attenzione a non cadere in analisi apparentemente dotte ma in realtà semplificate e rassicuranti che ci allontanano dal cuore della questione che a mio avviso va cercata in prevalenza in ciò che sta succedendo alla società europea nel suo complesso.

In tante occasioni, su queste pagine, e nel volume “Respinti”, abbiamo ricordato il progressivo crollo del sistema giuridico della tutela dei diritti umani in atto in Europa e il logoramento assoluto, dentro questo quadro, del diritto d’asilo, ridotto da diritto fondamentale dell’individuo a concessione da parte del potere di turno che con arbitrio assoluto lo elargisce a chi ritiene gli sia utile in quel momento. Ciò che accade impunemente ogni giorno con i respingimenti violenti al confine tra Grecia e Turchia e lungo tutta la rotta balcanica, ciò che accade da mesi al muro polacco-bielorusso dove i rifugiati, riclassificati come “armi ibride”, vengono respinti o fatti morire di stenti, ciò che accade nel Mediterraneo centrale dove non esiste un piano europeo di soccorsi e le barche-rottame dei migranti affondano una dopo l’altra in uno dei tratti di mare più affollati al mondo, ha creato uno sfaldamento della coscienza democratica europea che giustifica e rende socialmente accettabili scelte politiche che prevedono che si possa negare aiuto e protezione a coloro che si dissociano dalla stessa guerra di aggressione che noi condanniamo. Tali sciagurati diventano colpevoli del solo fatto di esistere, stirpe dannata che appartiene al Paese del “nemico”, qualunque scelta personale essi compiano, e della cui morte non ci dobbiamo interessare. Se accettiamo una simile prospettiva cosa rimane non del diritto d’asilo di cui non ha neppure senso parlare, ma della possibilità stessa di costruire una società democratica?

da altreconomia

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