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La Val Susa tra legalità e giustizia

Un’altra zona della Val Susa militarizzata, nel comune di San Didero. È l’ultima tappa di un percorso trentennale di spreco di denaro pubblico e di mancato ascolto dei territori e degli amministratori locali. La reazione, ancora una volta, è stata immediata e forte. Inevitabile quando la legalità (eventuale) si scontra con la giustizia.

Se provo a guardare con un po’ di distacco la situazione irredimibile della Val Susa, individuo quale sentimento dominante, alla base di ogni forma di contestazione, quello della ingiustizia istituzionale. Partendo dal quadro generale per poi scendere al particolare, metto in fila alcuni fattori esemplificativi.

Innanzitutto, in un periodo storico caratterizzato da una fame diffusa di investimenti pubblici e di buona spesa, i miliardi immobilizzati da oltre un ventennio per costruire un’opera preistorica e palesemente inefficiente, indignano i cittadini e gli amministratori locali strangolati da bilanci da fame. E non è da credere che questa sensibilità “economica” sia legata all’epidemia del 2020, perché, stante l’anzianità del progetto, valeva anche per la crisi del 2008, per quella del 2001, perfino per quelle del 1993-‘94 (l’epoca della “ripresina” che qualcuno ricorderà nelle rassicurazioni del non ancora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi).

Un secondo fattore di ingiustizia istituzionale si trova nella perdurante sordità di tutti gli organi di controllo, ministeri in primis, alle fondate richieste di approfondimenti, di rispetto ambientale, di correttezza delle procedure autorizzative, che il territorio e i suoi rappresentanti hanno inviato infinite volte in ogni modalità ufficiale e formale possibile, in tutte le sedi deputate, commissioni governative ed europee comprese. Avendo sempre e solo ricevuto in cambio risposte evasive, derisorie o semplicemente indifferenti, i sentimenti di impotenza e di rabbia repressa si accumulano da oltre due decenni. La relativa documentazione occupa ormai numerosi faldoni di carta e diversi terabyte di archivi digitali, è ben conosciuta e facilmente consultabile da chiunque voglia approfondire il tema. Non è questa la sede per una disamina puntuale di tutti gli argomenti, ma è opportuno ricordare soltanto che quelle criticità che sono state evidenziate ma mai risolte nelle varie fasi preparatorie, nell’ultimo anno e nei prossimi futuri arrivano fatalmente alle forche caudine della progettazione esecutiva e dell’apertura dei cantieri. Avendole ignorate fino ad oggi, è inevitabile che diventino i punti caldi dell’opposizione sia formale sia sostanziale alle singole opere così sciattamente approvate.
Dopo Chiomonte, iniziato nel luglio del 2011 e tuttora oggetto di lavorazioni preliminari, agli inizi di aprile del 2021 è stato aperto il cantiere di San Didero, per preparare l’area da mettere a disposizione di un nuovo autoporto per i camion, perché quello esistente a Susa deve essere sgomberato per lasciare spazio a impianti e fabbricati al servizio del futuro traforo sotto le Alpi. Come quello di Chiomonte, anche questo deve essere difeso giornoenotte da un nutrito spiegamento di militari. È dimostrato ormai che vigilare sugli impianti della Torino-Lione costa molto più che costruirla. Al momento non sembrano esistere ragionevoli prospettive per aprire i previsti prossimi cantieri ‒ Caprie, Bussoleno, Susa, Salbertrand ‒ senza continuare a mantenere un tale spiegamento di servizio d’ordine. Il loro perimetro complessivo assommerà a svariati chilometri, tutti da pattugliare ininterrottamente, con l’inevitabile corollario di costi per il personale, per gli automezzi e per gli strumenti come i droni e le torri faro che illuminano a giorno la notte, e di impatti ambientali specifici che non sono mai stati valutati né approvati in termini di emissioni, consumi di carburante, inquinamento luminoso, interruzione di corridoi faunistici. Le prospettive, anzi, sono ancor più fosche e grottesche. I lavori all’interno dei singoli cantieri sono limitati, hanno una fine, talvolta si fermano per mesi a causa di ragioni intrinseche (economiche, contrattuali, sindacali, meteorologiche). Invece la sorveglianza non può avere soste né vacanze. A parte una manciata di giornate all’anno di adrenalina per via dei manifestanti in campo, restano 51 settimane di noia e nullafacenza in uniforme. Così il senso di ingiustizia si allarga a comprendere il tempo male impiegato di tantissimi giovanotti nel pieno delle loro forze, aspirazioni e addestramenti, costretti a presidiare tante Fortezze Bastiani all’interno delle quali sono stati rinchiusi senza comprendere le motivazioni della loro condanna.

Scendendo la scala troviamo poi l’ultimo fattore di ingiustizia. Il più antipatico, forse, il più dimenticato dai soggetti che si avvicendano ai ruoli di vertice ‒ siano essi ministri, prefetti o questori ‒ ma il più radicato nella memoria collettiva del territorio. Fin dal tradimento della parola data da un vicequestore ai sindaci al Seghino di Mompantero nel dicembre del 2005, la fiducia nei rappresentanti delle istituzioni è scesa a livelli bassissimi. Rimane lì e non potrà risalire perché gli sgomberi di Venaus, ha certificato una sentenza del tribunale, sono stati compiuti usando coercizioni ingiustificate (e i funzionari di PS, stabilisce il giudice, furono “reticenti”). Così come furono esagerate ‒ distingue ancora la magistratura ‒ le azioni di repressione poste in essere a Chiomonte. Così come è esasperata e irrituale ‒ e riconosciuto da altre Corti, dal Tribunale dei Popoli, persino da Amnesty International ‒ la persecuzione degli esponenti del Movimento, culminata nella illogica detenzione di Dana Lauriola e Nicoletta Dosio ma preceduta, non dimentichiamolo, da denunce verso sindaci in fascia tricolore che si frapponevano tra poliziotti e manifestanti. Furono poi assolti perché il fatto non sussisteva, ma intanto dovettero subire il processo, difendersi, entrare da imputati nell’aula bunker usata in precedenza soltanto per terroristi e mafiosi. Per arrivare alle ultime vicende, quando centinaia di militari sono stati schierati in piena notte contro gli amministratori locali legalmente eletti come se non indossassero anche loro il simbolo della Repubblica sul petto ma fossero truppe di occupazione straniere. Come tali infatti, è doloroso dirlo, vengono percepiti dai cittadini.

Si dirà «ma l’opera è stata approvata, ha ottenuto, pur con centinaia di prescrizioni, tutte le autorizzazioni di legge». È vero. Nonostante i difetti sopracitati, è vero. Ma qui entra in gioco la differenza che non si può mai dimenticare tra legalità e giustizia. La Torino-Lione si ammanta di uno schermo di legalità formale, ma è sostanzialmente ingiusta nel senso più alto del termine. Fino a quando questi due termini, che talvolta vengono confusi, resteranno separati in Val Susa non ci potrà essere nessuna tranquillità né tanto meno una qualche forma di accettazione dell’opera. Ogni valsusino e tutti, tanti, i loro amici, ha scolpito in testa l’ammonimento che Giuseppe Dossetti voleva far entrare nella Costituzione: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino».

Luca Giunti

da VolerelaLuna

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