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La pedagogia della repressione conduce la Francia alla catastrofe

Intervista ad Alain Bertho: «Il confronto con la rivolta scoppiata del 2005? Credo che stavolta Macron, l’allievo, abbia superato Sarkozy, il maestro. Sono molto preoccupato. Temo nuovi drammi»

di Guido Caldiron

Dal suo osservatorio di Saint-Denis, nella periferia parigina – dove è nato, cresciuto e vive ancora oggi – Alain Bertho è uno degli intellettuali francesi che meglio hanno affrontato il tema delle banlieue e del significato politico e culturale delle rivolte che vi hanno luogo. Professore emerito di antropologia all’Università Paris 8-Saint-Denis, Bertho ha dedicato a questi argomenti decine di opere, tra cui: The Age of Violence (2018), Les enfants du chaos (2016), Le temps des émeutes (2009).

Tragedia, dolore, rabbia. Cosa ci dice della Francia di oggi l’uccisione a bruciapelo di Nahel, 17 anni, da parte di un poliziotto, avvenuta a Nanterre martedì e che sta incendiando l’intero Paese?

Credo ci parli prima di tutto degli esiti delle due logiche politiche messe in campo dal governo e da Macron. Da un lato, un ulteriore aggravamento della violenza poliziesca e della repressione non solo nei confronti degli abitanti delle banlieue, ma anche dei movimenti sociali, come chi ha manifestato per le strade del Paese contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente. Dall’altro, il varo di una legislazione che rende possibile tutto ciò e che spinge nella direzione dello «Stato d’eccezione» ricorrendo all’uso nella vita quotidiana delle norme varate contro il terrorismo, con esiti sempre più gravi. Solo per fare un esempio, la prima conseguenza delle nuove regole sulla possibilità da parte degli agenti di fare ricorso alle armi da fuoco, adottate alla fine dello scorso decennio, è stato il raddoppio delle morti di questo tipo rispetto agli anni precedenti: nel solo 2020 sono state 40, ben 52 nel 2021, 39 nel 2022 e quest’anno già 13. Parliamo di persone uccise «a sangue freddo» in seguito a un intervento degli agenti.

In queste ore in molti evocano la grande rivolta scoppiata nelle periferie nel 2005 dopo la morte di due adolescenti, Zyed e Bouna, fulminati in una cabina elettrica per sfuggire alla polizia…

Credo che questa volta la pedagogia messa in campo dall’esecutivo rischi di condurci alla catastrofe. Nel 2005 fu assaltato un solo commissariato, oggi se ne contano già 25 in pochi giorni. Perché anche di fronte a milioni di francesi che sono scesi in piazza, penso ancora alle grandi mobilitazioni a difesa delle pensioni, il governo ha deciso di continuare ugualmente per la sua strada, praticando la repressione o un po’ di bricolage parlamentare per far passare ciò che voleva: il senso è, qualunque cosa accada e dicano i francesi, «decido io, comunque!». Di fronte a un tale scenario, come spiegare ai giovani delle periferie, che sono sottoposti quotidianamente alle pressioni delle forze dell’ordine, di stare tranquilli, rispondere con le petizioni e gli appelli, o rivolgersi alle forze parlamentari per far sentire la propria voce? Devo essere sincero, sono molto preoccupato. Temo nuovi drammi e che la risposta del governo sia quella di aumentare ancora di più l’armamentario della repressione. E, nel frattempo, si cominciano ad accusare gli esponenti dei partiti di sinistra di essere degli «incendiari» perché condividono le ragioni delle proteste che sono in corso.

Nel frattempo è però diventato evidente che la repressione un tempo applicata nelle banlieue si estende oggi all’intera società…

Assolutamente. Anche in questo caso si possono fare degli esempi concreti: l’uso dei Lbd (lanceur de balles de défens), i cosiddetti Flash-Ball che sparano delle palle di caucciù semi-rigido con grande forza e velocità è iniziato nel 1995 nelle periferie, poi si è cominciato a utilizzarli anche contro le manifestazioni, a cominciare da quelle dei Gilets jaunes, provocando ogni anno decine di feriti gravissimi, persone che hanno spesso perso la vista in seguito ai colpi ricevuti. E anche le Bac, le Brigade anti-criminalité della polizia, che oggi intervengono regolarmente contro i manifestanti hanno mosso i loro primi passi nelle banlieue. Perciò, in particolare in seguito alle manifestazioni dei Gilets jaunes, è andata emergendo una nuova sensibilità intorno alla brutalità della polizia. Si è capito che quella violenza non veniva esercitata soltanto sulla «racaille», ma nei confronti di chiunque si opponga. Che il tema della situazione delle banlieue e di cosa vi accade non riguardi più solo chi abita in queste zone, è del resto stato chiarito anche in questi giorni dalla vasta partecipazione alla marche blanche che ha avuto luogo giovedì a Nanterre e a cui hanno partecipato diverse migliaia di persone arrivate da tutta Parigi, compresi gli esponenti di alcuni partiti della sinistra.

Eppure nel 2017 Macron aveva cercato di conquistare i voti delle periferie, ora c’è chi lo paragona a Sarkozy che ebbe parole, e gesti terribili contro quei giovani…

Potremmo dire che l’allievo ha superato il maestro. Effettivamente, al momento della sua prima candidatura all’Eliseo, si è pensato che il liberalismo di Macron potesse rappresentare un argine al montare del razzismo nel Paese. Dopodiché si è incaricato lui stesso di smentire queste attese, dando vita ad una politica neoliberale che ha fatto dei diritti, a partire da quelli sociali, il proprio avversario principale. Inoltre Macron ha puntato esplicitamente sull’idea di mandare in mille pezzi il quadro politico del Paese, trasformando Marine Le Pen e il Rassemblement National nel proprio sparring partner e contribuendo così a rendere questa forza centrale nello spazio pubblico. Il suo governo ha poi lavorato alla «costruzione del nemico» in particolare criminalizzando, con la scusa del terrorismo, l’islam francese presente, guarda caso, soprattutto nelle banlieue. Il problema per Macron è che però «i poveri bianchi» su cui ha cercato di fare presa indirizzando le loro paure verso i musulmani, se li è poi trovati in piazza a manifestare in massa contro la sua riforma delle pensioni. E così si può dire che alla fine, il suo gioco non è davvero riuscito.

C’è poi anche «un’altra banlieue», quella che vota Le Pen: può la leader dell’estrema destra trarre vantaggio da questa situazione?

Marine Le Pen gode attualmente di una posizione di forza perché i partiti di sinistra non sono stati in grado di capitalizzare quanto è emerso nella società in opposizione alla riforma della pensioni, cosa che hanno fatto invece i sindacati. Questi partiti sono infatti troppo impegnati a decidere quale sarà il loro candidato alle prossime presidenziali. Le Pen si è opposta alla riforma e appare oggi, anche per quanto si è già detto, la più valida avversaria di Macron. Allo stesso modo, in questi giorni si erge a paladina dell’ordine e parla a quanti magari, in quelle stesse banlieue, temono di veder bruciare la propria auto. Questo intreccio di elementi fa sì che ancora una volta sia lei ad essere percepita come l’oppositrice più risoluta e forte del presidente. E visto che in molti guardano ormai alla politica e al voto solo in questi termini, c’è il rischio che su di lei si concentrino i consensi di quanti vogliono soltanto cacciare Macron dall’Eliseo e che si chiedono: «Chi, tra i possibili candidati, può essere davvero in grado di batterlo?».

da il manifesto

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