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La criminalizzazione delle lotte sociali come spoliticizzazione del conflitto nella legge Salvini

Il contributo di Cesare Antetomaso in occasione della presentazione del dossier “Repressione e diritto al dissenso”

Forse, a ben guardare, un effetto positivo la legge Salvini lo ha avuto, ed è stato quello di riaccendere la luce su temi come il restringimento degli spazi di agibilità democratica. Poiché è questo il portato, nell’ambito specifico che qui ci occupa, dell’avanzamento lento, strisciante ma costante nel tempo del panpenalismo che nella Legge 132/18 trova piena affermazione, ossia la pretesa di affidare la gestione del conflitto sociale a una risposta di tipo meramente repressivo e di ordine pubblico e, perseguendo lo stesso disegno autoritario delle Leggi Minniti-Orlando, portare a compimento lo snaturamento dello stato di diritto.

Il provvedimento contiene una serie di norme manifesto, presentandosi come uno strumento per indicare la centralità della sicurezza nelle politiche dello Stato, alla stregua di un «bene pubblico» (così definito dalla legge) di importanza capitale e prioritario rispetto a qualunque altro diritto; anche, perciò, dei diritti sociali. Procedendo in direzione esattamente inversa rispetto a quella da anni invocata del diritto penale minimo, il “diritto penale no limits”, come definito da Vittorio Manes, assolve in questo quadro alla duplice funzione di procacciamento di consensi elettorali e di gestione del conflitto sociale.

A questo obiettivo si punta principalmente con la ripenalizzazione dei cosiddetti blocchi stradali; con l’aumento delle pene previste per il reato di occupazione (recte, invasione) di terreni ed edifici e la possibilità di disporre intercettazioni telefoniche; con l’implementazione del taser (“arma ad impulso elettrico”) fornito addirittura in dotazione ai vigili delle città sopra ai 100mila abitanti; con l’allargamento della platea degli utilizzatori del Ced (la banca dati del Viminale) ora non più limitata alla polizia giudiziaria; con l’addebito alla parte privata delle spese in caso di rigetto dell’impugnazione delle misure di prevenzione ed infine con l’estensione del “Daspo” a presidi sanitari e fiere e vieppiù con la criminalizzazione della violazione del Daspo medesimo, che diventa reato vero e proprio.

Così, si reintroduce il reato di blocco di strada ordinaria con pene fino a 6 anni (e nel caso di concorso da 6 a 12!) quando non molti anni fa, finalmente, il legislatore del primo governo Prodi aveva preso atto che le tensioni sociali —che non di rado si esprimono con forme di lotta sindacale simili, i famosi “picchetti”— necessitano di risposte politico-amministrative. Un’autentica sconfitta della politica, che abdica al proprio ruolo e tale da far sorgere una domanda: con quale strumento si vuole debellare la povertà? Con più carcere, forse, attese anche le ulteriori strette nei confronti di mendicanti e posteggiatori abusivi.

Con l’introduzione di un nuovo, ultimo comma all’art. 633 del codice penale, si puniscono poi con maggior pesantezza (da 1 a 3 anni di reclusione) il promotore e l’organizzatore dell’occupazione, con norma chiaramente intesa a dissuadere, con la possibilità concreta dell’incarcerazione, i protagonisti dei movimenti per il diritto all’abitare già duramente colpiti da quel residuato autoritario delle misure di prevenzione, per di più rivitalizzate dal precedente governo. Qui, dove l’esperienza ci insegna come sia difficilissimo individuare i “promotori”, non di rado identificati —autentica beffa!— con i protagonisti di tavoli e accordi istituzionali, si coglie un altro aspetto estremamente pericoloso della nuova normativa.

E allora, la previsione di intercettazioni telefoniche, riservate sin qui a ipotesi di reato gravissime come i reati di mafia o comunque legati al traffico di armi e droga, unitamente alla circolare ministeriale dello scorso anno sugli sgomberi, indica chiaramente le priorità in tema di condotte da reprimere, con una ulteriore torsione autoritaria nello stato penale e l’obiettivo di spoliticizzare il conflitto, criminalizzando le lotte sociali dopo averle marginalizzate e magari riproponendo nelle aule di giustizia il reato associativo.

Con l’accesso al Ced del Ministero dell’interno da parte della polizia municipale si amplia in modo irragionevole —verrebbe da dire sconsiderato— il numero di soggetti che potranno ottenere dati sensibili e riservatissimi di tutta la cittadinanza. In tempi contrassegnati da ricorrenti trafugamenti dei dati o comunque di un loro utilizzo abusivo e illecito, si sceglie la strada… dell’aumento esponenziale del rischio della loro illegittima propalazione.

Con la possibilità di sperimentazione di armi a impulsi elettrici (Taser), si dotano gli agenti di Polizia municipale delle grandi città, privi della necessaria esperienza nel campo della gestione dell’ordine pubblico: anche qui, non una sperimentazione con successiva verifica sul campo finalizzata all’utilizzo da parte delle forze dell’ordine tradizionalmente impiegate in piazza, bensì un autentico azzardo. Così, come giustamente affermato da Livio Pepino si compie una mutazione dei Sindaci, non più portatori di istanze sociali, ma unicamente organi di tutela dell’ordine pubblico.

Con una norma velenosa, si prevede poi l’addebito delle spese processuali in caso di soccombenza a seguito di impugnazione delle misure di prevenzione (art. 10 D.Lgs. 265/11), in aperto contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione poiché previsti solo a carico della parte privata. Un ulteriore colpo ai “socialmente pericolosi” che reclamano il diritto all’abitare, pur se privi persino di pendenze!

Ma è con l’estensione del Daspo alle fiere ed ai presidi sanitari (il cui obiettivo manifesto è eliminare —almeno alla vista— tossicomani, prostitute, senzatetto e devianti in genere) e soprattutto con la previsione della violazione di Daspo come reato, con arresto fino a due anni in caso di soggetto condannato finanche con sentenza non definitiva (!), che l’estensione della repressione penale tocca il suo apice.

Tutta questa produzione normativa è chiaramente incostituzionale. Basti pensare unicamente al mancato rispetto del principio di proporzionalità tra pena e offesa arrecata. Di più: essa si pone in contrasto con l’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani, con gli articoli 7 ed 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e finanche con il negletto Trattato sull’Unione Europea, il cui articolo 34 garantisce il diritto all’assistenza sociale ed all’assistenza abitativa per un’esistenza dignitosa.

Starà a noi giuristi democratici sollevare le relative questioni e apprestare gli strumenti giuridici per contrastare questa deriva; ma intanto passeranno mesi, forse anche anni e le norme cominceranno a produrre effetti.

Ma insieme a questo, prima ancora di questo, occorrerà preservare ed anzi incoraggiare le esperienze di opposizione civile di quelle persone, per fortuna ancora tante nel nostro Paese ed in Europa, che non accettano sopraffazioni, né discriminazioni classiste, anche se momentaneamente ammantate di una legalità che certo costituzionale non è.

Il compito che spetta ad associazioni, intellettualità diffusa e movimenti è quello di un’adeguata controffensiva culturale, alla quale si cooperi unitariamente, in Italia così come nel resto del continente, se è vero come è vero che la Francia si prepara ad un’ulteriore stretta repressiva con la legge propugnata dal Ministro dell’interno Castaner (con fermi di polizia prolungati e divieto di accesso alle manifestazioni nonché perquisizioni all’ingresso di determinate zone metropolitane) e la Germania ha già dato pessima prova di sé, come dimostra la legislazione liberticida varata giusto in tempo per reprimere con il carcere i movimenti di dissenso in occasione del G20 di Amburgo.

In caso contrario, il rischio, specie in tempi in cui da più parti si invoca il ritorno dei sacri confini nazionali, è che i giudici, come dimostrano i casi Riace ed Ong, finiscano sempre più vittime dello spirito dei tempi.

Cesare Antetomaso – Giuristi Democratici

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