Una risposta, sul terreno, al diritto alla protezione dei civili di Gaza affermato dai giudici della Corte internazionale dell’Aja, l’hanno data ieri centinaia di israeliani che hanno bloccato per il terzo giorno consecutivo il valico di Kerem Shalom per impedire l’ingresso nella Striscia dei camion con gli aiuti umanitari per la popolazione palestinese in condizioni catastrofiche. Tra di essi diverse famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza – ieri Hamas ha diffuso un video con tre di loro, tutte giovani donne – ma anche semplici cittadini israeliani mobilitati dai movimenti «Tsav 9» e «Madri dei Combattenti» intenzionati a fermare il flusso di generi di prima necessità e medicine per Gaza finché tutti gli ostaggi non saranno rilasciati.

Mercoledì, il primo giorno delle proteste, solo nove camion erano riusciti ad attraversare a Kerem Shalom, mentre 114 sono stati dirottati al valico di Rafah tra l’Egitto e Gaza. Ieri decine di autocarri, alcuni dei quali con la bandiera egiziana, sono rimasti fermi in fila per ore. Una manifestante israeliana ha definito un «fallimento morale» la consegna degli aiuti ai civili palestinesi che, a suo dire, «coprono i crimini di Hamas».  Lei e altri hanno invitato gli israeliani a «venire al valico di frontiera e fermare con i loro corpi questi aiuti umanitari per i palestinesi» ed esortato il premier Netanyahu a «mostrare più coraggio», ossia a respingere le pressioni Usa. L’Amministrazione Biden, infatti, aveva chiesto al governo israeliano di facilitare l’ingresso dei camion a Gaza e di impedire il blocco degli aiuti. Ma, rivelano i media israeliani, nella vicenda si è inserito a gamba tesa il ministro della Sicurezza, estremista di destra e visceralmente antipalestinese, Itamar Ben Gvir che ha ordinato alla polizia di lasciare ampia libertà a «Tsav 9» e «Madri dei Combattenti».

Di tutto ciò che accade a Kerem Shalom, oltre due milioni di palestinesi non sanno nulla, presi come sono dal garantirsi ogni giorno la sopravvivenza tra bombe, cannonate e fame, senza contare la difficoltà a mantenere i contatti con il mondo esterno perché la rete funziona ormai a singhiozzo e le linee telefoniche spesso sono mute. Pochissimi hanno potuto seguire le notizie all’Aja. Per loro la giornata di ieri è stata uguale a giovedì e quella di oggi non sarà diversa da domani. L’offensiva militare israeliana continua e si allungherà la scia di morte e distruzioni. La Corte più importante al mondo non ha chiesto di fermare la guerra come speravano i palestinesi. Tra giovedì e venerdì cannonate e bombe hanno ucciso 183 persone secondo i dati del ministero della sanità, portando il bilancio totale dei morti palestinesi dal 7 ottobre a 26.083. L’offensiva israeliana solo ieri ha compiuto «19 massacri contro famiglie a Gaza», riferisce l’agenzia di stampa palestinese Wafa.

Gli aiuti scarseggiano ovunque a Gaza, però nel nord, martoriato e difficile da raggiungere per i divieti dell’esercito israeliano e i combattimenti, la fame perseguita migliaia di famiglie. Le rare consegne di generi di prima necessità sono prese d’assalto da disperati e affamati. I funzionari delle Nazioni unite che riescono occasionalmente ad andare a nord, raccontano di persone magre con gli occhi infossati. Si rischia la carestia. «La situazione alimentare nel nord è orribile. Non c’è quasi cibo e tutti quelli con cui parliamo chiedono qualcosa da mangiare», racconta Sean Casey, coordinatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Gaza. I medici riferiscono di bambini nati malati da madri malnutrite, neonati che perdono peso, di donne che non possono allattare e di pazienti troppo deboli per combattere le infezioni. L’Unicef prevede che nelle prossime settimane più di 10.000 bambini a Gaza rischieranno il deperimento che può arrestare la crescita fisica e lo sviluppo del cervello.

Anche nel sud la gente non ha cibo a sufficienza e quando lo trova ha prezzi anche dieci volte più alti rispetto a quattro mesi fa. Le malattie sono in agguato. Circa il 66% dei palestinesi nella Striscia di Gaza soffre della diffusione di infezioni trasmesse dall’acqua come la diarrea e le malattie intestinali, denuncia l’Autorità palestinese per la qualità ambientale. La situazione è talmente tragica, che il capo dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, parlando delle condizioni «infernali» a Gaza, si è emozionato. «La guerra non porta soluzione – ha detto visibilmente scosso -, porta solo più guerra, più odio, più agonia, più distruzione. Quindi scegliamo la pace e risolviamo questo problema politicamente». Per la rappresentante di Israele all’Oms, i commenti di Tedros sarebbero un «completo fallimento della sua leadership». E ha accusato il capo dell’Oms di aver abbandonato gli ostaggi israeliani a Gaza. Parole che Tedros ha respinto con forza. Sotto pressione in queste ore è anche l’agenzia dell’Onu che assiste i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, che ha aperto un’indagine, su sollecitazione di Israele, su alcuni suoi dipendenti sospettati di coinvolgimento nell’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud dello Stato ebraico in cui sono rimasti uccisi circa 1200 israeliani. «Per proteggere la capacità dell’agenzia di fornire assistenza umanitaria, ho preso la decisione di annullare i contratti di lavoro di questi dipendenti e di avviare un’indagine per stabilire la verità», ha annunciato Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa.

Commentando le decisioni prese all’Aja, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant si è scagliato contro la Corte internazionale di Giustizia, affermando che Israele «non ha bisogno di lezioni di moralità». Più di ogni altra cosa, Gallant ha promesso che «le forze israeliane continueranno ad operare per smantellare Hamas e restituire gli ostaggi alle loro famiglie». La tregua di cui si parla – 35 giorni, forse due mesi in cambio della liberazione degli ostaggi – non appare affatto vicina nonostante il coinvolgimento nelle trattative tra Israele e Hamas del capo della Cia Williams Burns, del Mossad David Barnea, del  premier e del premier e ministro degli esteri del Qatar.