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Impunità

A riguardo la sentenza di assoluzione per l’omicidio di Stefano Cucchi, pubblichiamo un importante contributo che ci ha inviato il Prof. Salvatore (Turi) Palidda, sociologo, che insegna presso l’Università degli Studi di Genova. Nella sua lunghissima carriera si è occupato soprattutto di studiare il ruolo della polizia italiana, analizzando le trasformazioni delle sue funzioni rispetto al quadro generale della sicurezza urbana.

Il 31 ottobre 2014 passerà alla storia come un’ennesima data di conferma dell’impunità conferita ai membri delle istituzioni e pertanto dotati di potere discrezionale. La Corte d’appello di Roma ha assolto gli imputati della morte di Stefano Cucchi. L’avvocato Fabio Anselmo ha osservato che tutta l’indagine mostra la più che palese “omertà fra le170 persone che hanno visto Stefano in quelle condizioni e non hanno fatto nulla.

” No, non si tratta dell’omertà mafiosa, bensì della protervia di chi, da sempre, ha la quasi certezza dell’impunità. I casi dei cosiddetti abusi di potere, corruzione, violenze, torture e altri tipi di crimini commessi in particolare da parte di membri delle polizie si riproducono sempre di più con l’aumentare dell’asimmetria di potere (vedi:https://www.osservatoriorepressione.info/?p=5908).

Non è difficile immaginare che Stefano sia stato subito classificato e quindi trattato come uno dei tanti indegni, come una sorta di animale che “fa schifo”, che quindi non ha alcun diritto umano. Alcuni agenti dello Stato che hanno a che fare con questi reietti pensano di essere costretti a “sporcarsi le mani”, a neutralizzare e smaltire tali scarti per proteggere la società. Lo fanno per l’igiene pubblica e in nome di tutta la gente che pensa e chiede allo Stato legge, ordine, pulizia, decoro. E appare allora del tutto legittimo che questi eroi della difesa della società siano tutelati e che abbiano le “coperture sacrosante” che meritano quanti si sacrificano in quest’opera di pulizia/polizia. Così è del tutto normale che diversi colleghi e superiori (non tutti, per fortuna) voltino la testa dall’altra parte o approvino platealmente tale genere di trattamenti e, ovviamente, evitino accuratamente di svelarne dettagli e autori per impedire alla “canaglia garantista” di inscenare la solita “caciara” di violazione dei diritti contro le polizie e lo Stato.

Tutti i poteri sono suscettibili di passare dalla discrezionalità al libero arbitrio; ma, quando si tratta di forze di polizia, quasi tutte le autorità cercano di conservare il loro onore a tutti i costi, preservando così l’onore di una istituzione che ha il diritto di commettere reati.

Non a caso non esistono statistiche ufficiali sui reati commessi da agenti delle forze di polizia e in generale dell’amministrazione pubblica. E non è dato conoscere e sapere che fine fanno i procedimenti interni a carico di agenti e funzionari che sono stati imputati di qualche reato. Del resto la gestione di questi fatti da parte della gerarchia delle polizie non è molto dissimile da quella delle alte autorità dello Stato. Quando i fatti sono svelati pubblicamente non manca mai l’appello al rispetto delle norme dello stato di diritto, ma mai qualche autorità o i parlamentari della commissione interni hanno chiesto una commissione d’inchiesta sulla riproduzione dei reati da parte di agenti e funzionari (inchiesta che peraltro potrebbe permettere di capire come evitarne l’aumento mediante misure di prevenzione che non sono mai state pensate e tanto meno sperimentate, come pur dovrebbe essere prassi di uno stato di diritto che si considera democratico). Quanti sono i parlamentari effettivamente consapevoli di come funzionano le pratiche delle forze di polizia?

Come scriveva Egon Bittner (“padre” della sociologia della polizia): “non appena si osserva ciò che fanno veramente i poliziotti (aggiungo: quasi tutto il personale della pubblica amministrazione) ci si rende conto che la frequenza alla quale la maggioranza di essi lavorano all’applicazione del codice penale si situa da qualche parte tra praticamente mai e molto raramente”.

La metafora dell’anamorfosi (il gioco della deformazione o raddrizzamento di un’immagine con uno specchio deformante) appare la più appropriata per comprendere come chi ha potere possa passare dalla legalità all’illegalità e ritornare al legale attraverso un gioco a volte controllato, ma più spesso incontrollato e/o impensato o inconsapevole, praticato dagli attori coinvolti. A tale gioco che la polizia partecipa per disciplinare la società, il gioco che fa parte della sperimentazione continua tra norme, regole informali, illegalismi tollerati nonché azioni criminali e illegalismi intollerabili; si può quindi legalizzare ciò che appare legittimo se condiviso da una parte della società, sebbene del tutto opposto alle norme ufficiali.

L’impotenza di fronte alle ripetizioni di tanti terribili fatti come l’assassinio di Stefano Cucchi non può che alimentare quello scetticismo estremo che già molti, tra i quali Pasolini e Foucault, esprimevano. Ma, come essi hanno dimostrato, ciò non esclude pratiche di resistenza a cominciare dalla parresia e dai tentativi forse destinati al fallimento ma che si rinnovano e si rinnoveranno sempre perché fanno parte dello stesso istinto di sopravvivenza e dell’insopprimibile aspirazione all’emancipazione. Oltre alle richieste –s empre inascoltate – da parte delle organizzazioni che si battono in favore della tutela dei diritti fondamentali, sarebbe ora di creare in ogni città un’associazione di avvocati (tipo il Legal Advice londinese) sempre disponibili a garantire la presenza nei luoghi di detenzione “provvisoria” (questure, commissariati, strutture dei CC e celle dei tribunali).

Salvatore Palidda

contributo pubblicato anche da Alfabeta2

 

 

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