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«Immuni» ci libererà?

Mentre comincia la «fase 2», si moltiplicano gli interrogativi sulla app che dovrebbe tenere sotto controllo il contagio. Ma conviene veramente scambiare il diritto alla privacy con quello alla libertà di movimento e alla salute?

Ai tempi del Covid-19, in Italia e in altre democrazie europee sono già state varate le misure più restrittive delle libertà personali dalla fine della Seconda guerra mondiale. In Italia le misure sono state più drastiche che in altri paesi, in parte senza evidente necessità reale. Perché per esempio un genitore non ha potuto per settimane uscire con i propri figli per una passeggiata al parco? Chi ha pensato al diritto alla salute di questi ragazzi, rinchiusi in casa per settimane?

Ora però, ci viene detto dopo settimane di «reclusione forzata», una soluzione ci sarebbe: la app «Immuni». Una restrizione di un diritto fondamentale (la libertà di movimento) viene barattata con la restrizione di un altro diritto fondamentale (il diritto alla privacy) in cambio di una promessa di tutela della salute, che fino a ora nonostante le misure draconiane è stata realizzata solo in parte.

È uno scambio equo quello che ci viene proposto?  I dubbi sono forti e ruotano attorno a tre aspetti: l’efficacia, la volontarietà e il rispetto della privacy.

Efficacia. Una app che traccia i nostri contatti e salva dati sulla nostra condizione di salute comporta gravissimi rischi. Una precondizione perché questi siano giustificati è che i vantaggi che ci si può ragionevolmente aspettare dalla app siano reali. È la app «Immuni» in grado di contrastare efficacemente l’espansione del contagio? Anzitutto, la app può funzionare solo se i test sulle persone che manifestano sintomi o sono state a contatto con infetti vengono effettuati su larga scala e tempestivamente. Un sistema sanitario che non è stato in grado di fornire mascherine e guanti ai medici di base – e che non effettua i test nemmeno a chi chiama i numeri verdi dedicati all’emergenza Covid-19 – sarà ora in grado di offrire test a tappeto?

Il secondo punto che riguarda l’efficacia ha a che fare con la tecnologia bluetooth, che allo stato attuale delle informazioni verrà usata per il tracciamento. Come ha scritto il team del garante della privacy per il Baden-Württemberg, la tecnologia bluetooth è molto imprecisa: il suo raggio di rilevazione varia notevolmente a seconda che si trovi nella tasca dei pantaloni o in mano e i dati che fornisce non tengono conto della presenza di barriere fisiche. Se il mio vicino di casa è positivo e una domenica mattina abbiamo letto entrambi il giornale sul divano di casa nostra, separati da un muro, per la app contiamo come contatto. Chi pensa che usare il Gps per il tracciamento offrirebbe più precisione, si sbaglia: il Gps non distingue nemmeno diversi piani tra loro, cioè non capisce se il mio vicino sta 5 piani sopra di me o al mio stesso livello.

Infine, perché la app funzioni, secondo uno studio dell’Università di Oxford almeno il 60% della popolazione dovrebbe installarla. Allo stesso tempo, l’installazione dovrebbe essere volontaria. Come mantenere la volontarietà e insieme assicurare che la diffusione sia alta?

Volontarietà. Per incentivare l’installazione della app diversi meccanismi sono stati menzionati: dagli incentivi materiali come contributi per l’acquisto di smartphones per chi non ne possiede già uno fino agli espedienti morali come gli appelli al senso civico. Ma l’incentivo più forte mi sembra il messaggio alla base dell’introduzione della app: «Immuni» è la precondizione per passare a una nuova fase – senza app niente fine del lockdown. Cosa succede se la app non viene istallata da un numero sufficiente di persone «volontariamente»? Diventa obbligatoria? Oppure diventeranno gli obiettori i nuovi «furbetti», i nuovi capri espiatori di una mancanza di competenza nella gestione della crisi?

La protezione dei dati e il rischio di abusi. I nostri dati sono estremamente ambiti. Lo sono perché da essi si lascia estrarre un valore immenso. Dai nostri dati, non importa quanto «sensibili» o quanto dettagliati, si lasciano inferire ipotesi sulla nostra situazione e il nostro futuro comportamento. Chi dispone di questi dati ha un anticipo strategico di informazioni, che gli permette di arrivare al momento giusto con l’offerta giusta. «Giusta» per chi ha le informazioni, non per noi: se per esempio le mie ricerche su Google fanno inferire una gravidanza, riceverò offerte di abbigliamento pre-maman, se valgo come potenziale elettrice conservatrice riceverò al momento giusto la sollecitazione ad andare a votare. Chi ha l’anticipo di informazioni guadagna il mio acquisto e il mio voto. Se io avessi davvero bisogno di un altro vestito premaman o se la mia scelta elettorale avrebbe potuto essere diversa se ci avessi riflettuto ancora un po’ e ne avessi parlato con un amico, probabilmente non lo saprò mai e forse non me lo chiederò neanche. Forse penserò che sia stata una simpatica coincidenza ricevere proprio quell’offerta pubblicitaria e l’invito ad andare a votare.

I dati che verrebbero raccolti con la app «Immuni» sono dati estremamente sensibili: sui miei contatti e sulle mie condizioni di salute. Verranno in gran parte pseudonomizzati, ma non anonimizzati (nonostante talvolta anche documenti ufficiali parlino, scorrettamente, di anonimizzazione), cioè sarà sempre possibile rintracciare la persona a cui appartengono. Per qualsiasi istituzione, pubblica o privata, che ne viene a contatto, rappresentano una potenziale e enorme fonte di ricchezza e potere. Per questo il gruppo di esperti informatici europei che si sta adoperando per una soluzione che minimizzi il più possibile i rischi della app spinge con forza su una soluzione decentralizzata: i dati devono rimanere il più a lungo possibile sui dispositivi individuali e trasmessi solo in caso di necessità reale (per esempio, un test risultato positivo). Dopo aver inizialmente optato per una soluzione centralizzata, sembra ora che il governo italiano abbia deciso un cambio di rotta.

Tuttavia, anche se la soluzione decentrale sarà quella adottata, Google e Apple ricaveranno enormi vantaggi dall’introduzione della app. I due giganti tecnologici non forniranno direttamente la app, ma sono i gestori dei sistemi che sono installati sugli smartphones su cui verranno installate le app. E infatti dettano le condizioni e le regole del gioco. Anche ammettendo che Google e Apple non avranno accesso ai dati, come ha fatto notare l’associazione tedesca Digitalcourage, su Android quando si attiva il bluetooth si attiva automaticamente anche la localizzazione. Attivando la app, forniremo gratuitamente e senza rendercene conto a Google i dati sulla nostra posizione? La app attualmente in uso in Austria, quando viene attivata, chiede accesso non solo alla geolocalizzazione, ma anche la microfono. Google e Apple, infine, nella versione della app che è attualmente in discussione in Germania, gestiranno le chiavi crittografiche. Avverrà lo stesso anche per la app italiana? Inoltre è chiaro che la app rappresenterà per alcune persone che desiderano usarla ma non possiedono uno smartphone un incentivo ad acquistarne uno, effetto che sarà ulteriormente rafforzato dagli eventuali incentivi economici proposti da alcuni. Un grandissimo regalo per Google e Apple che in virtù del loro duopolio sui sistemi operativi vedranno aumentare il bacino dei loro utenti e guadagnare nuove fasce di clientela, che anche a emergenza passata e app disattivata continuerà a rifornirli di dati.

La crisi che stiamo attraversando è seria. Molte persone sono morte, la crisi sanitaria e il modo in cui è stata affrontata ha esacerbato la precarietà economica e il disagio sociale. Abbiamo già pagato un prezzo altissimo in termini di limitazione delle libertà personali. Ora ci viene proposta la sorveglianza digitale come possibile via di uscita. Cedere privacy per recuperare libertà e salute. Perché questa proposta sia credibile, perché sia degna di fiducia, alcuni presupposti sono necessari. Il primo e imprescindibile è che venga fatto uno studio di fattibilità serio. La app servirà veramente a ridurre il contagio? Ci sono le capacità per effettuare i test necessari? Il secondo è che le responsabilità istituzionali e politiche non vengano rigettate sui singoli, che il dibattito pubblico sia aperto e sereno e che il sacrificio in termini di diritti individuali che viene richiesto, così come i rischi che comporta, sia riconosciuto in tutta la sua portata. Il terzo presupposto è che le soluzioni proposte siano davvero ed esclusivamente orientate alla tutela della salute e non degli interessi economici di grandi o piccole aziende tecnologiche. Quindi decentralizzazione: i dati devono rimanere il più possibile nelle mani di coloro a cui appartengono, cioè noi, ed essere trasmessi solo in caso di vera necessità.

Infine, se app deve essere, perché installarla sugli smartphones? Usare gli smartphones vuol dire accettare la posizione di subalternità nei confronti dei giganti tecnologici e potenziare l’erosione della capacità di gestione pubblica della crisi. Significa inoltre creare un’interfaccia in cui dati estremamente sensibili vengono scambiati usando dispositivi su cui sono salvati i nostri contatti, le nostre foto e quant’altro, senza l’effettiva possibilità di controllare che non vengano create connessioni tra gli uni e gli altri. Digitalcourage ha proposto di usare dispositivi bluetooth ad hoc in alternativa agli smartphones per chi non ne possiede uno. Perché non pensare a una app che sia installabile solo o principalmente su dispositivi ad hoc e che non debba quindi dipendere dalle infrastrutture dominate dai giganti della tecnologia?

Elisa Orrù  –  ricercatrice in filosofia presso l’Università di Friburgo. Si occupa di sorveglianza, sicurezza e privacy.

da Jacobin Italia

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