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Il pendolo

Qualche giorno fa, il 27 aprile, dalle (immancabili) pagine del Fatto quotidiano Nando Dalla Chiesa (ex parlamentare, e tanto altro, che di professione fa il sociologo) ha usato parole offensive verso i Magistrati di Sorveglianza, accusandoli digarrula superficialità… estremamente premurosi verso il detenuto, forse ancor più se dotato di prestigio criminale“.

Muovendo l’autore dalla premessa di essere “divorato dalle mie allucinazioni domestiche“, l’intollerabile definizione di “Magistrati di badanza“, nonché il riferirsi a “pioggia di richieste di generosità che arriva dai loro avvocati… per ottenere grazie e indulgenze plenarie“, avevo pensato che ciò fosse frutto di un effetto patogeno del lockdown, del quale abbiamo avuto icastiche descrizioni dalle vignette e parole di Michele Rech, nel suo Rebibbia Quarantine – post scriptum (“gli effetti collaterali della pur meritoria opera del Basaglia“).

Archiviata la pratica – de minimis non curat praetor – il nostro non si è arreso.

Facendosi promotore di una petizione pubblica, dal sito di Antimafiaduemila, con l’accigliata espressione del detenuto domiciliare (come si definisce nel video), Dalla Chiesa disegna un nesso (frutto di allucinazioni di cui sopra) tra le rivolte di inizio marzo e le concessioni di provvedimenti di detenzione domiciliare (a suo dire dipendenti da improvvise – e ovviamente false! – condizioni di salute precarie, mai devolute prima al vaglio dei Giudici).

Quando ci sono delle cose gravi il pendolo prende una direzione e poi torna indietro, nei rapporti tra Stato e Mafia; citando Gherardo Colombo, il cui pensiero è sideralmente distante da queste espressioni intrise di luoghi comuni e condizionate da un’ossessione di vita e di morte, Dalla Chiesa si fa paladino dell’Antimafia che fa strame di leggi, Costituzione, separazione dei poteri.

Il pendolo oscilla, occorre impedire che torni indietro; bisogna riportarlo avanti. Verso la rupe Tarpea, si fa prima. Aveva ragione Sciascia.

Un uomo che non sa liberarsi della sua storia, e che pretende di condizionare quella degli altri; vittima per sempre, lui per primo, di quel paradigma vittimario in nome del quale la vittima è l’eroe del nostro tempo.

Non siamo certo qui ad invocare l’intervento di task force anti fake news; ognuno dica quel che vuole.

Ma chi insegna, deformando la realtà, e chi promuove petizioni per sollecitare l’interruzione di scarcerazioni facili e la detenzione domiciliare dei boss mafiosi, indossa il grembiule di pelle orlato di porpora, portando con sé gli strumenti del sacrifizio. Secondo l’Enciclopedia Treccani era l’abito dei vittimari, preposti a condurre la vittima all’ara, uccidere la bestia per estrarne i visceri da offrire alla lettura degli aruspici e preparare la porzione riservata agli dei. I vittimari costituivano una corporazione.

Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica” (Gigioli).

La vittima è titolare di una linea di credito inestinguibile. È legittimata alla protesta e al reclamo, obbligando gli altri alla risposta e alla giustificazione” (Pugiotto). A quel punto, Abele è legittimato a pronunciarsi sul destino di Caino

Con le parole di Procopio da Cesarea, “il crimine, quando gli si concede licenza, dilaga inarrestabile, se è vero che non lo si riesce a sradicare del tutto, nemmeno quando si colpisce severamente“.

Non resta che attendere un decreto legge; l’ennesimo, scritto sotto dettatura (o dittatura).

Michele Passione – Avvocato

da Ristretti Orizzonti

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