L’approvazione della riforma delle pensioni in Francia ha aumentato il livello dello scontro di piazza: nel corso di assembramenti spontanei, manifestazioni autorizzate e non, occupazioni e sit-in si sono verificati episodi repressivi violenti da parte delle forze dell’ordine. Si fanno sentire sdegno e denunce, tanto nelle posizioni ufficiali – ad esempio da parte del relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto di riunione e associazione pacifica, o del commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa – quanto nella stampa non francese. Come se le violenze delle forze dell’ordine francesi fossero cosa nuova. Non lo sono.
La prima volta che l’Europa ha assistito in maniera massiccia, grazie anche ai social, al dispiegarsi dell’apparato repressivo delle forze dell’ordine francesi è stato nel 2018. Ne avevamo già parlato brevemente, ma è importante ricordare – non fosse altro che per dare la misura del fenomeno – che il movimento dei Gilets Jaunes ha pagato un tributo molto caro alla sua rivolta: 300 persone ferite gravemente alla testa, 25 che hanno perso in maniera permanente un occhio in seguito ai tiri di granate Lbd e 5 che hanno perso un arto (quasi sempre una mano, nel tentativo di allontanare le granate in questione). Anche se il numero resta impreciso, si arrivano a contare 2.000 feriti in totale.
Gli storici fanno nascere la cultura dell’ordine nella Francia degli anni Trenta del Novecento, con la creazione della Gendarmeria mobile e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, delle Compagnies républicaines de sécurité (Crs), divisione che ha una formazione e un equipaggiamento specifici e che è pensata per la gestione delle piazze. I Crs furono coinvolti negli scontri di piazza che portarono alla morte di un manifestante durante le proteste del movimento pacifista francese contro la visita a Parigi del generale americano Ridgway (1952); nell’uccisione di 7 manifestanti, di cui 6 algerini, il 14 luglio 1953, nel corso di una protesta contro il colonialismo; di diverse decine di morti il 17 ottobre 1961 in quello che è stato definito un “pogrom antialgerino”, e dei cosiddetti “10 del metro Charonne” nel 1962, durate una manifestazione contro la guerra in Algeria.
Lo storico Emmanuel Blanchard evidenzia su “Le Monde” che
«dagli anni Trenta in poi, e soprattutto dopo il 1945, questa violenza della polizia si è manifestata ogni volta che i “colonizzati” manifestavano a Parigi o nelle province. La polizia non li trattava come cittadini, ma come “nativi”. Il 28 maggio 1952, l’unico morto della mobilitazione contro il generale Ridgway è stato un algerino, colpito da un proiettile; nel 1953 la polizia ha aperto il fuoco sulla marcia non violenta del movimento di Messali Hadj, uccidendo 7 manifestanti, senza dimenticare, naturalmente, il massacro del 17 ottobre 1961. Nel Dopoguerra, la polizia ha trattato i “musulmani francesi” d’Algeria in modo ancora più duro di come l’esercito, nel 1891, ha brutalizzato gli operai di Fourmies o altrove».
Al maggio ‘68 sono seguiti anni relativamente pacifici, almeno per i francesi di “souche”, ossia i cittadini bianchi con una storia familiare conforme alla narrazione nazionale, nati e cresciuti in contesti “bianchi”. Gli scontri esistevano, ma restavano controllati e limitati territorialmente. Propri di alcuni contesti e di alcune popolazioni. Oppure non raccontati perché non rientravano nelle narrazioni ufficiali. Se ne parla poco. Perché la Francia stessa non ne vuole parlare.
Nel 2005 la cosiddetta “rivolta delle banlieues” esplode – sulle ceneri di discriminazioni, povertà, segregazione territoriale, delinquenza, razzismo – in seguito alla morte di due adolescenti che cercavano di sfuggire alla polizia. L’evento ha oltrepassato i confini nazionali, permettendo un primo passo verso una discussione pubblica in Francia. Ma le macchine bruciate erano solo la punta dell’iceberg della sofferenza di territori dalla storia complessa, dimenticati dalla République, eppure sui quali il controllo – e l’abuso – da parte delle forze dell’ordine erano e sono la quotidianità. Le auto nelle banlieues di Francia bruciavano prima del 2005 e continuano a bruciare.
Nel 2020, sul “Guardian”, Mathieu Rigouste, militante e ricercatore specializzato in violenza di Stato, scriveva:
«La polizia francese di oggi è plasmata dalla violenza della sua storia: molti dei suoi metodi di sorveglianza e repressione sono arrivati in patria dal repertorio delle forze che si occupavano degli “indigeni nordafricani” nelle ex colonie francesi. Per tutto il periodo coloniale, agenti e ufficiali di polizia hanno fatto tesoro delle loro esperienze in luoghi come l’Algeria e le hanno applicate alla sorveglianza dei quartieri popolari e alla repressione delle insurrezioni nella Francia continentale. La caccia all’uomo, la cattura e le tecniche di strangolamento che hanno recentemente [nel 2016 e 2020, N.d.R.] ucciso Adama Traoré o Chouviat, e l’uso della violenza sessuale per umiliare, come nel caso di Théo Luhaka nel 2017, fanno parte di questa lunga storia». [L’affaire Theo è la storia di un giovane di 22 anni della Seine-Saint-Denis, fermato dalla polizia per un controllo e arrivato in ospedale con ferite al retto praticate con un manganello. Danni che resteranno permanenti].
Gli anni Duemila hanno segnato una svolta, perché diversi media indipendenti hanno dato voce e spazio alle famiglie delle vittime, e nel 2010 i giornali hanno finalmente accolto il termine di “violenza della polizia”, anche se sistematicamente virgolettato. Nel 2019 però Macron sosteneva ancora: «Non parlate di “repressione” o “violenza della polizia”; queste parole sono inaccettabili in uno Stato di diritto». E Castaner, il suo primo ministro all’epoca, dichiarò: «Non c’è la polizia violenta, non c’è la polizia razzista».
Il movimento dei Gilets Jaunes ha fatto esplodere la questione. La luna era troppo piena; almeno bisognava ammettere che fa luce. Per la prima volta si vedeva una violenza di quel tipo su una popolazione “bianca” nel centro delle città. Solo l’11 gennaio 2020 “Le Monde” ha parlato per la prima volta di “ciò che può essere descritto, senza virgolette, solo come violenza della polizia” (ne parlammo qui).
Il sociologo Didier Fassin in un testo del 2011 cita un episodio avvenuto nel 2005, quando un brigadiere urla al suo commando, prima di intervenire in una cité (i grandi agglomerati urbani francesi che sono spesso composti da case popolari e sono considerati quartieri ghetto): «Abbiamo perso la guerra di Algeria. Quarant’anni fa abbiamo abbassato i pantaloni, non è certo oggi che lo rifaremo. Niente prigionieri!» (citato su “Orient XXI” da Rigouste).
La violenza delle forze dell’ordine non è (solo) un problema tecnico, è anche una questione di riconoscimento politico
La presenza armata della polizia in zone dove la delinquenza ha tassi più alti è stata una necessità, una scelta e una giustificazione per un controllo stringente del territorio, che si accompagnava – e si accompagna – a pratiche di controllo e ad abusi costanti sulle persone. Controlli condotti anche più volte su una stessa persona, senza motivo; umiliazioni; complicazione della vita quotidiana; violenze più o meno grandi, spesso gratuite. La violenza delle forze dell’ordine non è (solo) un problema tecnico, è anche una questione di riconoscimento politico.
La polizia non si comporta allo stesso modo con tutti i cittadini, né su tutti i territori. Così come non si comporta allo stesso modo con tutti i manifestanti: alcuni sono più severamente controllati, trattenuti, disciplinati o repressi di altri. Per Rigouste «la violenza della polizia non è il risultato di una perdita di controllo da parte dello Stato: è una tecnica di governo consolidata da tempo». Tecnica che è stata usata nelle colonie, perfezionata nelle banlieues e ora esportata nelle piazze del Paese, da un governo che è fatto da persone che non hanno una tradizione politica alle spalle.
Rigouste aggiunge un tassello, in relazione al movimento dei Gilets Jaunes e all’epoca che viviamo:
«I recenti cambiamenti nella violenza della polizia sono parte integrante della ristrutturazione neoliberale iniziata nei primi anni Settanta con il lancio dei mercati globali della sicurezza e della difesa. Nuovi approcci alla gestione si sono evoluti per aumentare la produttività della polizia, che si è sempre più governata come un’“azienda” con “obiettivi” da raggiungere».
Ci sono poi le scelte politiche e la storia di un Paese. Se alziamo lo sguardo all’Europa, vediamo una Francia che va in direzione opposta rispetto alla “de-escalation” negli scontri di piazza iniziata negli anni Duemila, quando Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Inghilterra, Svizzera, Portogallo e Germania hanno iniziato a incontrarsi per discutere la gestione delle piazze e il rapporto tra forze dell’ordine e cittadinanza. Il programma si chiamava Godiac (Good Practice for Dialogue and Communication as Strategic Principles for Policing Political Manifestations in Europe) e fu lanciato nel 2010. La Francia ha rifiutato di parteciparvi.
Primo Paese europeo per immigrazione dalla fine del XVIII secolo e per tutto il XX, la Francia è meticcia ma non sa dirlo. L’ideale universalista repubblicano, che vorrebbe tutti i cittadini uguali nei diritti e laici di fronte alla nazione, si frantuma su una realtà che non riesce, ormai da tempo, a rappresentare. È quello che cerco di raccontare, quello che vedo negli interstizi di cose lette, sentite, viste e annusate: un presente complesso fatto di storia, di politica, di decisioni precise, di voglia di cambiamento, di frustrazione, di nevrosi, di identità e di memoria.
La memoria, la storia, la lettura del presente: nel 2021 è uscito in Francia un documentario, in prima serata sulla Tv nazionale. Noirs en France racconta, con la semplicità di un documentario televisivo, storie di ordinario razzismo verso cittadini di origine africana. È stato accolto con applausi: era ora. Quando si arriva alla questione delle lotte per i diritti civili e delle violenze istituzionali casca l’asino, le immagini sono quelle del Black Lives Matter.
Eppure, nel 2016, Adama Traoré è morto dopo essere stato arrestato; nel 2020 Cédric Chouviat, cittadino francese di confessione musulmana, è morto dopo un controllo della polizia, soffocato, proprio come Floyd. Non siamo proporzionalmente ai livelli degli Stati Uniti (un migliaio di vittime all’anno negli States, contro le 25 circa della Francia, che però, certo, ha circa un quinto della popolazione). Ma è un grosso neo.
La questione delle violenze a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, e in maniera particolare con il passaggio della legge sulla riforma delle pensioni con l’uso del 49.3, è in sé – a mio avviso, in una lettura che non ha l’ambizione né la pretesa di essere globale – un esempio di diverse storie che fanno la complessità del presente.
Da un lato una interpretazione maldestra – a tratti distorta – delle istituzioni, che con il movimento dei Gilets Jaunes si sono trovati di fronte a manifestanti con pratiche ben diverse da quelle dei cortei sindacali, storicamente decise, dichiarate e negoziate in anticipo. Organizzate. Dall’altro lato va detto anche che i gruppi e/o gli individui che compongono quello che viene chiamato “black block” e quella che la destra definisce “l’ultra-gauche”, e che da ormai una ventina d’anni fa parte del paesaggio delle manifestazioni di piazza o dei diversi tipi di scontro – dal famoso “cortège de tête” alle pratiche delle Zad (Zones à défendre) –, sono composti spesso da persone abituate alle dinamiche di piazza, che non solo hanno almeno un minimo di formazione e di pratica, ma un’esperienza collettiva e, a volte, una volontà di “mise en scène”.
Ora abbiamo visto la polizia reprimere tutti quanti: non solo i cittadini “razializzati”, non solo i Gilets Jaunes, ma la popolazione
I Gilets Jaunes sono un’altra cosa. Verso di loro c’è stato un atteggiamento di paternalismo nelle migliori ipotesi, e di disprezzo nella peggiore: si tratta di persone che sono guardate con diffidenza e arroganza. Dal potere e, purtroppo, spesso anche dal “contropotere”. Ora abbiamo visto la polizia reprimere tutti quanti: non solo i cittadini “razializzati”, non solo i Gilets Jaunes, ma la popolazione che va in piazza contro la riforma delle pensioni, contro i mega progetti infrastrutturali, contro il governo Macron.
Quante sono le vittime delle violenze delle forze dell’ordine in Francia? Il media indipendente (e militante) BastaMag ne conta 746 tra il 1977 e il 2020, questi dati contano ogni tipo di decesso in seguito a contatto con la polizia (manifestazione, controlli di identità, custodia, furti, fughe, soffocamento…). Circa la metà sono avvenuti nelle grandi agglomerazioni della regione parigina, di Lione e di Marsiglia. Territori che ospitano gran parte dei “quartieri difficili” e popolazioni con un passato legato alla storia di migrazione o coloniale. Il soggetto medio colpito da questa violenza è un uomo di meno di 26 anni, il cui nome ha consonanze africane o magrebine.
Un sondaggio Ifop di marzo 2023 dice che la fiducia dei francesi nelle forze dell’ordine si è gravemente deteriorata dal 1999, soprattutto tra i giovani. Solo il 42% degli intervistati dice avere “fiducia” nella polizia, rispetto al 53% del 1999; percentuale che scende al 28% tra i giovani sotto i 35 anni e al 19% tra i 18-24enni. Per quanto riguarda la violenza della polizia, il 56% dei francesi ritiene che “corrisponda alla realtà”. Tra questi, il 72% dei giovani tra i 18 e i 24 anni, ma solo il 43% degli ultrasessantacinquenni.
Ogni Paese deve fare i conti con la sua memoria. Ed è molto spesso penoso, duro, e dovrebbe comportare un ripensamento della struttura del potere. Il passato coloniale francese è fatto di vite consumate, storie personali dolorose, morte, orgoglio e umiliazione. Ferite, cicatrici e cancri che restano il grande nodo della discussione, in una società che è ben più avanti delle sue istituzioni. Il presente è quello che ho cercato di raccontare qui.
da Il Mulino
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