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Elogio della diserzione

Parlano di distensione nello stesso momento in cui inviano armamenti in Ucraina. Appiattiscono tutto sulla dicotomia buoni/cattivi: la guerra è propaganda, pensiero unico, menzogna. Intanto, ripetono che l’invasione non ha spiegazioni. In questo quadro l’unica scelta possibile di pace si chiama diserzione. Che nel concreto significa non concedere deleghe in bianco a chi governa, dire no alle armi sempre e comunque, pretendere che le istituzioni internazionali diventino attori di pace. “Ci diranno, infine, che con i russi è impossibile comprendersi: gli risponderemo – scrive Marco Arturi – che nei giorni scorsi ne sono arrestati quasi seimila perché avevano deciso di dire no alla guerra. Persone che, nel luogo e nel momento in cui è più difficile farlo, hanno deciso di disertare…. Potremmo provare ad ascoltarli…”

di Marco Arturi

Non è il momento di ignorare gli avvertimenti
non è il momento di fare piazza pulita
non dispiaciamoci per ciò che è stato
lasciando che il passato diventi il nostro destino
(Lou Reed, “There is no time“)

Dalle prime ore di giovedì 24 dicembre sentiamo ripetere che l’invasione russa dell’Ucraina non ha giustificazioni, non ha spiegazioni. Le cose non stanno così e non sarebbe una faccenda di poco conto, dal momento che capire perché accade quello che accade – un esercizio messo in pratica da pochi, per la verità – non farebbe male a nessuno e soprattutto eviterebbe rischi molto seri. Perché è anche per questo che in Occidente ci siamo scoperti in pochi giorni tutti abili e arruolati, pronti a sostenere in qualche modo le ragioni di un conflitto dagli esiti potenzialmente devastanti per l’intero pianeta.

L’arruolamento su larga scala dell’opinione pubblica è stato curato da governi che parlano di distensione nello stesso momento in cui inviano armamenti in Ucraina e da media embedded fin dal principio che hanno rinunciato a ogni pretesa di oggettività e di indipendenza. Ci sono un aggredito e un aggressore, non importa – anzi, per la narrazione non esiste – il perché; ci sono i buoni e i cattivi, anche se scavando un minimo si farebbe in fretta a capire che i buoni non sono degli stinchi di santo; poi ci sono i giusti, quelli quasi al di sopra delle parti, che saremmo noi. Noi occidentali, noi atlantici, noi europei, noi filoamericani. Il che è tutto dire.

La verità, che da sempre è la prima nemica di ogni guerra, ha lasciato il posto alla ragione, intesa non come sinonimo di razionalità ma come parte giusta in assoluto. In men che non si dica ci siamo trovati quasi tutti seduti da quella parte, spesso in perfetta buona fede e guidati dalla compassione per un popolo gettato nel peggiore degli incubi. Ma tra stare con gli ucraini e stare con l’Ucraina ce ne corre, almeno quanto essere contro Putin e essere contro i russi. Eppure niente, tutto è appiattito sulla dicotomia buoni/cattivi. La guerra è anche questo, si fa anche così: è propaganda, è pensiero unico, è menzogna, è fake news. È dire “noi siamo per la pace” mentre si spediscono armi e si ammassano plotoni a est. È raccontare che “chi sceglie la guerra deve pagarne le conseguenze” mentre si riprendono i raid aerei sulla Somalia come ha fatto Joe Biden non più tardi di tre giorni fa.

Essere arruolati significa presentarsi, per quanto guidati dalle migliori intenzioni, a una manifestazione per la pace con una bandiera nazionale senza capire che le bandiere degli stati non hanno mai avuto e non potranno mai avere nulla a che vedere con la pace. Essere arruolati significa fare parte di un’opinione pubblica che confonde la pace con la guerra, che non si pone domande, che si sente dalla parte giusta a prescindere. Che si sente protetta anche se sta seduta su una polveriera. È così che ci si trova con una divisa addosso: e se non ci fai molta attenzione te la infilano anche se hai il ribrezzo dell’uniforme.

In un quadro del genere l’unica scelta possibile di pace si chiama diserzione. Che nel concreto significa non concedere deleghe in bianco a chi governa, non lasciarsi ingannare dai resoconti di parte, dire no alle armi sempre e comunque, pretendere che il tuo paese – o il tuo continente, nel nostro caso – si faccia attore di pace, di confronto, di dialogo. I (tanti) torti e le (poche) ragioni si affronteranno dopo, l’unica cosa che conta davvero è far tacere le armi e farlo adesso. Quando due capi di stato – Biden e Lukashenko, nello specifico – arrivano a usare con disinvoltura l’espressione “terza guerra mondiale” significa che il tempo delle ambiguità è scaduto.

Ci diranno che abbiamo degli obblighi da onorare: gli risponderemo che tra essere atlantici ed essere coglioni c’è una bella differenza e che se sono sinonimi possiamo anche cominciare a farne a meno. Ci diranno che ad essere aggredito è qualcuno con il quale condividiamo i valori: li inviteremo a farla finita con questa falsa retorica e a distinguere chiaramente tra valori etici e valore economico. Ci diranno, infine, che con i russi è impossibile comprendersi: gli risponderemo che nei giorni scorsi ne sono arrestati quasi seimila perché avevano deciso di dire no alla guerra. Persone che, nel luogo e nel momento in cui è più difficile farlo, hanno deciso di disertare.

Ecco perché forse, anziché togliergli la parola con gli atti tipici degli stati di guerra che stiamo adottando, potremmo provare ad ascoltarli: che è l’atto più vicino alla parola pace che si possa immaginare.

da Comune-Info

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