Menu

I due pesi e le due misure della giustizia: Marica contro Ikea

Il caso della dipendente non reintegrata sul posto di lavoro e la sentenza del giudice di primo grado. Da una parte una donna in stato di bisogno, dall’altra una multinazionale

Certamente bisognerà aspettare, leggere la sentenza, capire perché un giudice ritenga legittimo il licenziamento di una dipendente Ikea, separata, con due figli piccoli, di cui uno disabile. Certamente, come si dice, lasciamo che la magistratura faccia il proprio corso.

Siamo solo al primo grado, in fondo, pazienza – diranno i garantisti – se Marica Ricutti se ne starà a casa, senza stipendio per lei e per i suoi piccoli. Nel dispositivo il giudice parla “di comportamenti di gravità tali da ledere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e consentono l’adozione del provvedimento disciplinare espulsivo”. Cose gravi, quindi.

C’è un’intera genia di italiani per cui i giudici hanno sempre ragione. Ed è una sorta di misticismo giuridico, santo mistero della Legge, sacramento della Toga di carattere spesso ideologico. Il mantra recita: “Le sentenze non si giudicano”. Al massimo si impugnano. Vediamo come. Ogni anno arrivano circa 200 provvedimenti all’esame della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, quella sorta di iperspazio dove i giudici giudicano altri giudici.

Sono procedimenti che riguardano negligenze, errori macroscopici, dimenticanze, nei casi peggiori anche abuso di potere da parte di chi siede sullo scranno più alto di un’aula di Tribunale. Secondo gli ultimi dati disponibili, fonte Csm, appena il 70% delle richieste finisce col rinvio a giudizio e poco meno del 50% dei processati subisce una condanna. Più di frequente il giudice se la cava con un ammonimento. Anche per cose gravi.

E allora sulla bilancia dei Palazzi di Giustizia il concetto di gravità è sempre al centro? O pende a seconda di chi è il giudicato e il giudicante? E chi controlla il controllore? Perché esistono migliaia di cause, e quelle civili sono un universo caotico, in cui chi ha ragione finisce per aver torto e chi ha torto non solo si porta a casa la ragione ma pure il risarcimento danni.

Chi è incappato in un errore giudiziario, lo sa. E’ una via crucis. Ci sono parcelle da sborsare agli avvocati e alla parte ‘offesa’, e c’è un senso di ingiustizia che cresce dentro, un sentirsi indifeso davanti a motivazioni incoerenti, sentenze lacunose che vanno avanti per anni e anni e anni. Nel caso di Marica c’è un tema in più. Perché lei è una dipendente, donna, e in una situazione di evidente fragilità, mentre la controparte è una gigantesca e potente multinazionale. E dice bene il segretario della Cgil di Milano, Massimo Bonini: “Quante donne sono costrette a rinunciare al lavoro perché non si creano le condizioni affinché sia conciliabile con le esigenze della famiglia? E l’Italia è il primo Paese per dimissioni dal lavoro delle donne. In un periodo in cui tutte le forze politiche parlano di tutela del lavoro – ha chiesto Bonini -: di quale lavoro e società parliamo? Di quello in cui i turni sono scelti da un algoritmo?”.
Ecco, gravità per gravità, ci sarebbe anche questo da valutare. Un buon giudice dovrebbe farlo, semmai.
Daniela Amenta

Leave a Comment

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>