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Congo: L’inferno ordinario nel carcere di Kinshasa

Tra i dimenticati della prigione centrale della capitale congolese, dove se non hai i soldi sei condannato ai più degradanti abusi fisici e giuridici. La lotta per la sopravvivenza dei detenuti “ordinaires”

di Fabrizio Floris

Makala è la prigione centrale di Kinshasa, Repubblica democratica del Congo. Fondata nel 1957 per accogliere 1.500 detenuti ne ospita, al momento, 10.500. Su una superficie di circa 13 ettari vengono ospitati sia i detenuti in custodia cautelare che quelli condannati in via definitiva, siano essi adulti o minori. In tutto sono undici padiglioni (9 per uomini adulti, uno per i minori e uno per le donne – attualmente 300, con 30 bambini, in uno spazio che potrebbe ospitare poco più di 100 persone).

«NON TUTTI VIVONO A MAKALA allo stesso modo» spiega la persona che ha facilitato questa visita e che chiameremo R. M. per proteggere la sua incolumità. «Tutto dipende dalle tue possibilità economiche – prosegue -. Ci sono capannoni con centinaia di persone accatastate a terra su delle piccole stuoie, alcuni sono così rannicchiati che non riescono più a muovere le gambe e ormai non escono neanche quando c’è – ogni tanto – l’ora d’aria. Vi sono tuttavia anche stanze singole, con tv, materasso, cibo di qualità, telefono…».

A Makala c’è una gerarchia detentiva ben precisa. «Qui c’è stato per un giorno anche un famoso deputato – prosegue la nostra guida – condannato a vent’anni per corruzione che aveva così tanti soldi che è arrivato ed è praticamente subito uscito. Se ne sono accorti per primi i detenuti, da quella cella non arrivava nessun rumore, nessun cenno di vita, nessuno che entrava e usciva, ma il direttore diceva che il detenuto era dentro. Poi abbiamo scoperto che si trovava in Sudafrica: dopo pochi mesi è tornato e oggi è pronto a ricandidarsi».

Il riferimento è con ogni probabilità a Vital Kamerhe, membro dell’Unione per la nazione congolese (Unc) ed ex braccio destro del presidente Felix Tshisekedi: condannato nel 2020, ha avuto la pena ridotta in appello e la libertà provvisoria nel 2021, per poi essere prosciolto nel giugno scorso.

MA A PARTE QUESTE ECCEZIONI il carcere è sempre al di sopra della sua capienza perché la giustizia è lentissima, le pratiche non vengono esaminate per anni, soprattutto quelle dei detenuti meno abbienti, quindi succede che una persona condannata ad esempio a 6 mesi di carcere, sta dentro 30 mesi, poi non esce lo stesso perché non ha i soldi per mandare avanti la pratica (anche se hai vinto la causa, ti vengono addebitati non meno di 2.000 dollari per farti uscire di prigione), i famigliari a volte pensano che è morto, soprattutto per chi viene da dove ci possono volere settimane di viaggio per raggiungere la capitale.

Nella maggioranza dei casi i residenti di Makala sono detenuti ordinaires: persone che non hanno una famiglia in grado di mantenerli, che non possono pagare la retta di ingresso (25 dollari), né la quota di collecte per le spese settimanali (1,5 dollari). Sono, pertanto, sottoposti alle fatiche più umilianti e faticose, come pulire le fosse settiche a mani nude.

Questi detenuti sopravvivono solo grazie alla piccola razione di cibo concessa dall’amministrazione penitenziaria e, a volte, con quello che riescono a passare le associazioni di volontariato. Non mancano i casi di malnutrizione. Escono raramente in cortile e dormono ammassati nelle camere, nei corridoi, nelle docce, nei bagni.

GLI EFFETTI DI QUESTO trattamento sono evidenti sulla salute dei detenuti: l’assistenza sanitaria è lenta e di bassa qualità, il personale medico è poco motivato a fornire cure ai pazienti che non sono in grado di pagare toli ya kopesa (la mancia). C’e un settore apposito per i malati, «tutti gli ammalati senza distinzione di patologie – spiega R. M. -, per cui è facile che le malattie vengano trasmesse. Ci sono persone affette da aids, tbc, piaghe infette, infezioni intestinali… Uno entra per curare una piaga, si prende la tubercolosi e muore. Penuria di acqua – poca e sporca – e mancanza d’igiene sono le prime cause di propagazione di malattie e di morte».

I detenuti “ordinari” riescono a cavarsela se trovano detenuti più abbienti per cui lavorare: fare pulizie, cucinare, lavare i piatti. I detenuti vip hanno a disposizione una camera singola in padiglioni riservati a cui si accede pagando tra i 100 e i 300 dollari. Hanno telefoni cellulari e sono esentati da ogni tipo di mansione, se necessario possono essere trasferiti in ospedali di lusso senza difficoltà.

DA ULTIMO È IMPORTANTE notare che i trattamenti diversi arrivano fino a quelli che vengono chiamati detenuti “speciali”, che affiancano o addirittura soppiantano l’amministrazione penitenziaria. Sono i detenuti-governatori, responsabili dei vari padiglioni. E c’è anche un governatore generale. Si tratta di un’organizzazione parallela e fortemente gerarchica, vengono nominati dalla direzione del carcere sulla base di vari criteri mutevoli. Il loro compito è sopperire all’assenza del personale penitenziario addetto al controllo e al mantenimento dell’ordine all’interno del carcere. Sono autorizzati a infliggere punizioni ai prigionieri recalcitranti (reclusione nei sotterranei, lavori domestici ecc.) e a perquisire i visitatori. In cambio godono di una serie di privilegi: riscuotono gli “affitti” e le altre “collette” pagate dai loro compagni di reclusione. Vivono in stanze migliori, non affollate, dispongono di telefoni e hanno accesso a cibo di migliore qualità. Il carcere non ha un sistema di controllo elettronico, quindi entrano regolarmente alcol, stupefacenti, telefoni.

Dai dati risulta che nel carcere di Makala ci sono più detenuti in custodia cautelare che condannati. Con l’arrivo di papa Francesco, all’inizio dello scorso febbraio, i volontari che lavorano nel carcere hanno presentato al pontefice una lista di 600 detenuti la cui pena è già scaduta e che dovrebbero solo essere scarcerati. L’ordinamento penitenziario in teoria prevede che, ogni mese, un magistrato visiti le carceri per accertarsi che nessun detenuto vi sia «trattenuto oltre il tempo necessario per essere condotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente». Ma spesso anche chi avrebbe diritto alla libertà condizionale non ne usufruisce e resta in carcere.

CONFINATO IN UN ANGOLO del cortile c’è un gruppo di 30 donne (con quattro bambini) arrivate da pochi giorni dalla prigione di Beni, nel Kivu. Le hanno portate a Kinshasa con un aereo dell’Onu. Sono tutte sotto shock, spaventate e si vede che «la loro testa non funziona più bene – racconta un volontario -. hanno vissuto 6 anni nelle mani dei miliziani dell’M23 nella foresta, poi sono finite in prigione». Solo 3 sono congolesi le altre 27 sono vengono da Kenya, Uganda, Burundi, Ruanda, Tanzania, sono state catturate nei loro villaggi e poi portate al seguito dei miliziani. Nei loro volti non c’è nessuna espressione, il viso è impietrito e gli occhi sbarrati. Una è completamente assente, ha un bimbo di 3 anni, ma non sa che è suo, non se ne cura; un’altra ha un bimbo di 4 anni gravemente denutrito.

«L’ALTRO GIORNO HO SENTITO delle urla più forti del solito, mi sono precipitata – racconta Louise – e ho visto quattro uomini forti che hanno tirato fuori Marie perché dava fastidio, gridava, si lamentava e alle guardie non andava bene perché lì vicino c’era la sala delle visite. Così l’hanno presa per legarla ai ferri delle sbarre, ma lei lottava quindi l’hanno gettata a terra, legata in maniera orribile… È rimasta nuda. Le altre donne gridavano e piangevano. Alla fine hanno smesso di picchiarla lasciandola a terra mezza morta. Sono andata nell’ufficio del direttore gridando tutta la mia rabbia, poi ho pianto per tutta la sofferenza di questa parte di umanità, per queste donne confinate alle periferie dell’esistenza».

Makala è un micro-cosmo che riflette molti dai mali della società congolese e in questo caso se vuoi fare qualcosa dentro devi partire da fuori.

da il manifesto

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