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Carceri, la svolta che non c’è. Dal governo misure deludenti

Neanche sul versante dei diritti e delle garanzie il governo Monti produce una svolta positiva rispetto al pessimo berlusconismo leghista e securitario. Sulla condizione carceraria il governo è stato molto deludente. Evidentemente l’assolutismo liberista comporta un guado giustizialista.
La popolazione carceraria è, oggi, di 68mila reclusi, a fronte di 45mila posti regolamentari. Il sovraffollamento è, già di per sé, una tortura indicibile. I suicidi quest’anno sono già 61. I casi di autolesionismo sono migliaia. Nelle carceri, come dimostrano inchieste e processi in corso, sono ridiventati quotidiani i pestaggi e le “squadrette punitive”. La legge Gozzini è, quasi ovunque, un miraggio, un’oasi nel deserto. Coloro che operano sulla risocializzazione prevista dalla Costituzione (assistenti, psicologi, ecc.) sono ridotti numericamente all’osso ed impossibilitati ad agire. Il carcere è sempre più classista, discarica sociale, punizione per i poveri, i tossicodipendenti, i migranti, gli irriducibili che non accettano l’ordine sociale.
In questo contesto, il primo atto della ministra Severino è stato quello di proporre il “braccialetto elettronico”, lasciato poi cadere perché «non è stata ancora acquisita la certezza del suo funzionamento e la ragionevolezza dei suoi costi». Subito dopo ha escluso qualsiasi provvedimento di amnistia ed indulto su cui, invece, un giurista come Carlo Federico Grosso su la Stampa di ieri scriveva: «E se l’unico modo per ristabilire in qualche modo ordine e vivibilità in carcere fosse proprio il ricorso agli istituti di clemenza?». Di fronte alla gravità e all’emergenza carceraria il governo si limita ad un semplice ampliamento del decreto Alfano sulla detenzione domiciliare, che verrà portata dagli attuali 12 mesi a 18. Dovrebbero avvantaggiarsene appena 3.300 sui 68mila reclusi (con un risparmio giornaliero stimato intorno ai 380mila euro).
Non solo governo e parlamento non vogliono amnistia e indulto, temendo l’impopolarità nei confronti di un’opinione pubblica che è stata da loro stessi fomentata, in quanto hanno politicamente utilizzato le paure e le insicurezze sociali per una più mediocre governabilità e per costruire capri espiatori (anche così vanno analizzati il pogrom contro i rom a Torino e l’assassinio dei senegalesi a Firenze); ma governo e parlamento nemmeno impostano politiche alternative che abroghino norme come la Cirielli, la Fini-Giovanardi contro i tossicodipendenti, la Bossi-Fini (e relativi pacchetti Maroni) contro i migranti, leggi che da sole costruiscono i tre quarti della popolazione carceraria.
Occorre invece una seria politica di depenalizzazione e di decarcerizzazione nella logica dello “stato penale minimo”, di applicazione di misure alternative al carcere, il quale va considerato istituto di ultima istanza: occorre, cioè, dopo anni di securitarismo, ricostruire un percorso di civilizzazione della giustizia penale e della condizione detentiva.
Sono, infine, nettamente contrario ad un aspetto, molto pericoloso, prospettato dal ministro: trattenere, nelle camere di sicurezza degli uffici di polizia, gli arrestati che devono affrontare un processo per direttissima. Sono preoccupato «per i numerosi casi di violenze all’interno di stazioni e caserme dove, per giunta, non è previsto alcun sindacato ispettivo». Vi è il rischio di violenze, vi può essere un inquinamento delle indagini; l’impunità è un fatto quotidiano, purtroppo. Le morti di Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri dovrebbero evitare superficialità su un punto così delicato che riguarda lo stato di diritto.
Giovanni Russo Spena

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