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Carcere, l’uso della paura e la sfida per le riforme

Le polemiche che stanno accompagnando la concessione della detensione domiciliare per ragioni di salute ad alcuni condannati di mafia sono, a dir poco, sproporzionate. E’ il segno del prevalere di una impostazione repressiva e di una involuzione della cultura antimafia su cui occorre riflettere.

«Quindi la lezione è che un ministro della Giustizia conferma fiducia al capo delle carceri (riconoscendosi nel suo operato) se 13 detenuti muoiono in rivolte stile anni 70…

Ma non più se pm/giornali/tv autoproclamati antimafia scatenano fuorvianti polemiche, e ottengono controriforme à la carte, quando giudici di sorveglianza applicano la legge nel non far morire in cella detenuti (pure boss) bisognosi di indifferibili cure”. In questa essenziale ricostruzione dei fatti (da me necessariamente sintetizzata) di Luigi Ferrarella (Corriere della sera, 3/5/2020) c’è il succo del passaggio politico-istituzionale che si è compiuto al Ministero della giustizia la scorsa settimana, nel pieno di un delicato cambio di fase in cui i positivi al virus in carcere ancora non diminuiscono, mentre il Ministro annuncia che tra due settimane i parenti potranno tornare a far visita ai loro congiunti detenuti.

A governare l’emergenza sono stati chiamati due magistrati di diversa generazione, ma di analoga esperienza professionale, maturata principalmente (se non esclusivamente) nei ranghi della pubblica accusa e specificamente nell’azione penale contro la criminalità organizzata. Due magistrati, il Presidente Petralia e il suo Vice Tartaglia, del cui valore non si può dubitare, ma che dovranno confrontarsi con un mondo complesso e forse a loro in gran parte sconosciuto.

D’altro canto, è bene ricordarlo, i detenuti in 41bis – di cui tanto si è discusso nelle scorse settimane – sono poco più dell’1% della popolazione detenuta e quelli a vario titolo coinvolti in associazione criminali poco più del 10%. Poi ci sono gli altri, la stragrande maggioranza, la «detenzione sociale» di cui parlava Sandro Margara, a cui nessuna particolare pericolosità sociale giustifica la compressione di diritti fondamentali e delle opportunità di reinserimento prescritte dalla Costituzione.

Speriamo, dunque, che il nuovo vertice sappia ascoltare e prendere in fretta le redini del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Ce lo auguriamo e glielo auguriamo sinceramente. Rimane, però, da interrogare quella lezione messa in luce da Ferrarella: 13 morti non valgono due, tre, forse quattro assegnazioni al domicilio di vecchi capi mafia gravemente ammalati.

Sappiamo quanto pesi sulla realtà della giustizia penale il suo abuso populista, che ha nel carcere il suo totem. La resistenza alla necessaria misura deflattiva della popolazione detenuta in occasione della pandemia trova ragione in quella cultura politica. Ma dall’altra parte cosa c’è? Sì, certo: il Papa, la Corte costituzionale, i magistrati e gli avvocati più avveduti, tanti ottimi operatori, professionali e volontari, le associazioni per i diritti e i garanti. Sì, va bene, ma nella scena politico-istituzionale chi persegue un disegno politico opposto a quello fondato sull’uso della paura a fini di consenso?

Non si vede, in campo, un progetto opposto a quello della centralità del carcere e della sua esibizione come soluzione alle ingiustizie e alle sofferenze che pure attraversano il nostro mondo. Di questo, si è discusso, giovedì scorso, nell’assemblea de La Società della Ragione, piccola, ma combattiva associazione che ha al suo attivo importanti campagne, come quella che ha portato all’abolizione della legge Fini-Giovanardi, e coraggiose iniziative politiche e culturali per la riforma degli istituti di clemenza o della imputabilità dei malati di mente. Sfide ambiziose e, nell’immediato, forse impossibili, come certo doveva apparire quella di Davide contro Golia.

Sfide al senso comune, che riaprirebbe i manicomi piuttosto che porre termine a una misura di sicurezza al di fuori di una istituzione di controllo. Eppure sfide essenziali, altrimenti in campo resteranno solo gli imprenditori politici della paura e la flebile resistenza del buon senso sarà inevitabilmente perdente.

Stefano Anastasia

da il manifesto

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Buttare la chiave? Spunti per una riflessione sull’antimafia

Mentre in tutte le carceri italiane il virus si diffonde (sono ormai 159 i casi conclamati e non si contano quelli sospetti, con detenuti “in isolamento” in celle multiple) e provoca i primi morti, il dibattito e le polemiche non si appuntano sul numero dei reclusi (53.187), tuttora di gran lunga superiore alla capienza reale degli istituti penitenziari (poco più di 47.000 posti), ma sull’avvenuta concessione della detenzione domiciliare per ragioni di salute ad alcuni condannati in regime di 41 bis (quattro, forse cinque, a quanto è dato sapere). La destra populista (da Salvini a Meloni), qualche giornalista affascinato dalle manette e alcuni magistrati antimafia (non tutti, per fortuna) si stracciano le vesti e gridano alla scandalo fino a provocare le dimissioni del direttore dell’Amministrazione penitenziaria (che, in verità, bene avrebbe fatto a presentarle prima per assai più serie ragioni) e a indurre il Governo a varare, il 30 aprile, un decreto legge che inserisce nell’iter decisionale delle domande di detenzione domiciliare di condannati in regime di 41 bis il parere obbligatorio della Procura nazionale antimafia. Fin qui tutto prevedibile e previsto e non metterebbe conto parlarne. Il fatto in qualche misura nuovo è che, a quelle, si sono affiancate le voci di esponenti di movimenti antimafia (anche qui non tutti, per fortuna) tradizionalmente sensibili ai temi del carcere e dei suoi ospiti. La cosa impone una riflessione e, auspicabilmente, l’apertura di un confronto.

Conviene, come sempre, partire dai fatti. I condannati transitati dal regime di 41 bis alla detenzione domiciliare sono stati in questi mesi – come si è detto – poche unità. Le polemiche hanno riguardato, in particolare, due casi. Il primo è quello di Francesco Bonura, 78 anni, condannato per associazione mafiosa a 23 anni di reclusione, con fine pena dicembre 2020 (tenendo conto della liberazione anticipata maturata), portatore di gravi patologie oncologiche e cardiorespiratorie. Il secondo è quello di Pasquale Zagaria, 60 anni, condannato per associazione camorristica a 21 anni e 7 mesi, con fine pena dicembre 2023, costituitosi spontaneamente nel giugno 2007, confesso per gran parte dei delitti contestatigli e di cui, già nel 2015, la Corte d’appello di Napoli, revocandogli la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, aveva escluso l’attualità della appartenenza al sodalizio criminale; Zagaria – va aggiunto – è stato sottoposto nel dicembre scorso a intervento chirurgico per una patologia oncologica con necessità di successive cure impraticabili nel luogo di detenzione (carcere di Sassari) o in presidi ospedalieri prossimi e l’Amministrazione penitenziaria, pur sollecitata dalla magistratura di sorveglianza, non aveva ritenuto di disporne il trasferimento in altra struttura idonea alle cure. Dunque, due personaggi caratterizzati, da un lato, da un evidente spessore criminale (come risulta dall’entità delle pene inflitte) e, dall’altro, portatori di gravi patologie e destinati comun