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Abusi e botte dietro le sbarre, i troppi casi di malapolizia nelle carceri italiane

Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: «La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile»

Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall’accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall’accusa di aver seviziato l’operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione.

«Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità» dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. «Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire», ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. «Sapevo – racconta a Linkiesta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato». Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato.

SILENZI E RITARDI

Meno “fortunato” è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate.
È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico.
Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima «non riusciva più a stare in posizione eretta», non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini.

Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le «cause della morte» e «eventuali lesioni interne o esterne» riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile – si chiedono da Antigone – che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: «una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita».

L’ULTIMO CASO A IVREA

Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma «R.A.» in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. «Il giorno sabato 7 novembre scorso – si legge nella lettera – ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome.
Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la “rotonda” del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare». R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome.

Carmine Gazzanni da Linkiesta

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