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L’anniversario di Mani Pulite, quando i Pm conquistarono il potere

Il 17 febbraio sono 28 anni da Mani pulite. Si viaggia verso il trentennale dell’inchiesta che cambiò la storia del Paese. In meglio secondo alcuni, in peggio secondo altri.

Chi scrive queste povere righe fa parte della seconda categoria e ne ha fatto parte fin dal mitico biennio 1992 1993 quando dilagava il pensiero unico e tutti i partiti dall’Msi al Leoncavallo erano con le loro bandiere in corso di porta Vittoria.

Le tv più tifose erano quelle del Cavaliere che non ci aveva capito niente. La corruzione politica esisteva e come anche prima del 1992 ma le procure, Milano in testa, facevano finta di non vederla. Il fenomeno lo si leggeva, volendo in dati che erano pubblici. I partiti spendevano molto di più rispetto a quanto incassavano come finanziamento dallo Stato. Ergo “rubavano”. Ma andava bene così evidentemente anche per quelli che poi sarebbero diventati gli eroi della finta rivoluzione.

Non c’era convenienza a intervenire, non sarebbe stato opportuno. La scusa della lotta alla corruzione per agire sarebbe venuta buona più avanti. Per la magistratura che aveva da incassare il credito acquisito anni prima, quando aveva risolto su delega della politica la questione della sovversione interna infliggendo colpi di piccone allo stato di diritto e alla Costituzione sostituita da una Carta materiale adeguata a leggi d’emergenza pretese e ottenute dalle toghe. Insomma scattò il piano per saltare al collo dei politici e dire adesso comandiamo noi.

Chi finiva in galera doveva “dare l’osso”: raccontare qualcosa che i pm non avevano ancora accertato, “roba nuova”. Un manager ospite di San Vittore iniziò l’interrogatorio dicendo: «Con quello che c’è scritto qui io non c’entro niente». E indicò l’ordine di custodia cautelare. Il dottor Di Pietro sorrise e replicò: «Lei lasci perdere quelle carte, mi dica cosa sa».

Insomma il clima era quello. Ma si affondava il coltello solo da alcune parti. Le grandi imprese furono “miracolate”. A cominciare dalla Fiat e dalla Cir. Sia Romiti sia De Benedetti presentarono memoriali, in cui ammettevano di aver pagato mazzette, ma molto lacunosi. L’inquinamento probatorio era evidente come nei casi di indagati arrestati tre o addirittura quattro volte.

Ma davanti ai poteri forti si chiuse un occhio e l’altro pure. Anche Mediobanca che aveva fatto un solo boccone di Montedison, la fece franca per usare una espressione cara a Piercamillo Davigo. Come del resto fu evidente lo stop nelle indagini sul Pci-Pds. E non era un problema di toghe rosse.

Quelle erano state utili anni prima per sostenere che Autonomia Operaia e Br erano la stessa cosa. Il pool aveva bisogno di una sponda politica perché se avesse affondato la lama anche dentro Botteghe Oscure la politica tutta avrebbe reagito varando una amnistia e sarebbe finita l’ammuina.

Mani pulite alla corruzione fece un baffo, ma fu utile alle toghe per accrescere il loro potere nei confronti della politica. Fu un regolamento di conti all’interno delle classi dirigenti. Il codice di procedura penale fu usato come carta igienica con mille pesi e mille misure.

Cusani, che in Montedison non aveva incarichi formali e firme sui bilanci, fu condannato a più del doppio della pena di Sama e Garofano i quali erano dentro la società.

L’unico grande imprenditore oggetto di indagini approfondite fu Berlusconi ma perché nel frattempo era “disceso in campo”, diventato un politico molto probabilmente costretto dai conti in rosso di Mediaset. E da 25 anni sta sotto tiro dei pm anche tramite la sua camera da letto. Sviluppando solo i fascicoli di indagine utili per interessi politici e mediatici, i magistrati in pratica inquinavano le prove ma ovviamente nessuno è in grado di chiamarli a risponderne.

Chi controlla i controllori? È la domanda che ponevo un quarto di secolo fa e che resta senza risposta.

Frank Cimini

da il Riformista

 

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