Non tutta la stampa italiana ha seguito l’ordine di scuderia dei grandi gruppi editoriali stretti intorno a Mario Draghi, Confindustria e il “partito della vendetta” (oltre che del pil). Riproponiamo qui alcuni articoli
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«C’è anche in programma una visita di Stato in Francia del presidente Sergio Mattarella e dovrebbe essere firmato il Trattato Quirinale per rafforzare i rapporti bilaterali. In questo contesto Macron potrebbe dare il via libera alle estradizioni chieste alla Francia dalla ministra Marta Cartabia nell’ultima riunione con il suo omologo francese».
Intervistato da Repubblica lo scrittore francese Marc Lazar risponde alla domanda su un possibile cambiamento di linea del governo d’Oltralpe sulla presenza a Parigi di persone condannate in Italia per fatti di lotta armata. Lazar polemizza con gli intellettuali francesi che avevano nei giorni scorsi firmato un appello a favore della dottrina Mitterand «perché sul tema c’è ancora troppa ignoranza».
Eppure a proposito di cambiamenti di linea va registrato che Lazar dieci anni fa intervistato da Paolo Persichetti sul quotidiano Liberazione aveva detto: «Dopo la dietrologia e le commissioni parlamentari di inchiesta ora è il tempo degli storici».
Quindi ora non sarebbe più il caso di storicizzare ma di consegnare all’Italia una dozzina di protagonisti di una stagione politica lontanissima e di portarli in carcere adesso che hanno tutti un’età più vicina agli 80 che ai 70.
Lazar aggiunge che dietro la scelta di Macron che lui ipotizza ci potrebbero essere anche ragioni di politica interna. «Forse lui pensa di lanciare un messaggio agli elettori di destra come sta facendo su altri temi come sicurezza e laicità. Macron è già in campagna per la sua rielezione e concentra la sua strategia su questo elettorato».
Lazar afferma che i suoi connazionali difensori dei rifugiati politici italiani «non prendono quasi mai in considerazione il punto di vista delle vittime del terrorismo». Dieci anni fa Lazar voleva affidare la questione agli storici mentre adesso invita a tener conto della posizione dei parenti delle vittime, mostrando almeno un po’ di invidiare le repubbliche islamiche dove i familiari decidono anche le pene dei colpevoli. Lazar accusa gli intellettuali suoi connazionali di essere ideologici, ma anche lui non scherza. Anzi.
Il riferimento alla visita prossima di Mattarella a Parigi non è casuale. Il giorno del rientro in Italia di Cesare Battisti, aveva detto: «E adesso gli altri», parlando di altri condannati e rifugiati all’estero.
Il presidente della Repubblica è un politico di grandissima esperienza. Non è un caso che insieme a Giorgio Napolitano suo predecessore al Quirinale abbia fatto prevalere le ragioni della politica firmando la grazia a cinque agenti della Cia condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar.
In quel caso Mattarella mise in secondo piano gli anni di carcere da scontare. C’era di mezzo la ragion di Stato o meglio degli Stati perché dall’altra parte c’era il governo degli Stati Uniti d’America.
Per le vicende dei cosiddetti “anni di piombo” invece non sarebbe possibile una deroga, una soluzione politica, un provvedimento di amnistia che chiuda un periodo storico, come era scritto nell’appello degli intellettuali francesi che avevano sposato la proposta dell’avvocata Irene Terrel.
Terrel aveva spiegato di trovare assurdo l’accanirsi e la vendetta a decenni di distanza. È pura ideologia in fondo anche il non voler prendere atto dell’impossibilità di una memoria condivisa. A Milano in piazza Fontana ci sono due lapidi. In una si legge che l’anarchico Pinelli morì innocente, nell’altra che venne ucciso. Una al fianco dell’altra.
La storia la scrivono i vincitori ma gli sconfitti non sono obbligati a condividere.
Frank Cimini da Il Riformista
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«Ombre rosse» la vendetta
Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta
Pensavamo di essere noi quelli capaci di rievocare, con il nostro 50° anniversario, gli anni Settanta. E invece no, a suo modo- non da una prospettiva storica ma con una vendetta storica – si è mosso nelle stesse ore il governo italiano che ha ottenuto l’arresto in Francia di sette ex militanti delle Br – tre risultano in fuga – e uno di Lotta continua.
Protagonista questa coalizione onnivora di governo che, in pandemia, tiene dentro tutto, centrosinistra, centro, centrodestra e destra razzista, avvalendosi perfino dell’«opposizione di sua maestà» dell’estrema destra di Fratelli d’Italia. Tutti plaudenti l’operazione “Ombre rosse” che, è bene ricordarlo, è stata insieme battaglia populista-giustizialista di Salvini ministro degli interni nel Conte 1 e poi richiesta dal ministro dei 5Stelle Bonafede a riprova del giustizialismo populista.
A cosa possa servire un tale iniziativa se non a cementare questa coalizione indefinibile, il cui unico vanto per ora è la quantità del fondo europeo da spendere, non è dato capire. Senza naturalmente sottovalutare i crimini gravi che agli accusati vengono contestati, ci si chiede infatti che cosa rappresenti realmente una giustizia che scatta ad orologeria ma si rivela una giustizia senza tempo, infinita e politica.
Perché, esemplifichiamo sulla figura di Pietrostefani che ha 78 anni ed è gravemente malato – ma non riguarda solo lui la distanza temporale -, ci troviamo di fronte a vicende e crimini come l’omicidio Calabresi: è del 1972.
Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta.
Mentre «trionfa Macron», sempre più in difficoltà al proprio interno, che cancella l’asilo concesso da Mitterrand ma avverte: «Vi ho inviato questi dieci, ora la vicenda è chiusa». Riecco dunque immancabili le Brigate rosse. Un abuso di memoria, una strumentalizzazione che si avvia con questa sceneggiatura dell’«arresto dei brigatisti», come se davvero fossero una minaccia cogente, ombre rosse sul nostro incerto presente e su quello dello Stato.
Insidiato invece da ben altre forze che hanno devastato e privatizzato i presidi pubblici. Viene allora legittima una domanda. Come mai sulle stragi fasciste degli anni 60-70 che hanno visto un coinvolgimento diretto di corpi dello Stato italiano, impera ancora una fitta nebbia che, nell’impunità, azzera ogni memoria – siamo il Belpaese delle stragi impunite, con tanto di Commissione parlamentare intestata – mentre per la lotta armata di matrice rossa tutto si conosce e tutti i colpevoli o sono morti o hanno scontato decenni di galera e li stanno ancora scontando?
L’operazione di decontestualizzare le vicende sembra completa e i crimini tutti eguali. No, quelli che hanno visto lo Stato connivente che invece della democrazia costruiva Gladio e finanziava la manovalanza nera stragista, sono archiviati – per non dire delle stragi nazifasciste della Seconda guerra mondiale, finite nell’«armadio della memoria» per le quali aspettiamo, come sa la Procura militare, ancora le riparazioni dalla Germania. La storia italiana dal dopoguerra oggi è stata questo.
Attenzione allora a perseguire una giustizia politica da fiction televisiva motivata con la ragion d’emergenza. Negli anni Settanta ad ogni emergenza seguì altra emergenza, e ciascuna di esse comportò una riduzione delle garanzie fondamentali, una compressione dello stato di diritto con violazione dei diritti soprattutto nelle prassi giudiziarie; fin allo snaturamento dei processi come luogo «terzo» e retrogradato a luogo di lotta a un fenomeno non altrimenti affrontato, soprattutto sul piano politico. Su queste ambiguità si attivò la «dottrina Mitterrand» dell’asilo, alla fine indirettamente accettata anche dall’Italia.
La distanza de “Il manifesto” dai protagonisti della lotta armata è stata ed è profonda: per noi ogni processo rivoluzionario o è di massa e cambia la natura del potere o è sostituzione arbitraria di leadership; «A chi giova?» si chiedeva Rossana Rossanda nell’editoriale del 18 maggio 1972 sul delitto Calabresi, per il quale intravvedeva il tentativo di aprire un varco ad un sistema autoritario e insieme la disarticolazione del movimento di massa e la messa nell’angolo della nuova sinistra.
Questa è stata la critica durissima che noi abbiamo ripetutamente rivolto alla lotta armata, questa è la responsabilità che porta, insieme alla nostra incapacità a costruire una alternativa politica. Consapevoli di questo non abbiamo però mai nascosto in primo luogo a noi stessi, il fatto che ci trovavamo di fronte ad avvenimenti – certo sbagliati e scorciatoie scellerate -, ma di natura politica.
Per i quali trovare espedienti giustizialisti, come fu il “Teorema Calogero”, era vergognoso. La soluzione doveva e deve ancor essere politica. Una lacerazione nel tessuto sociale c’era effettivamente stata e una lacerazione politica si era consumata e andavano comprese le ragioni e riannodati i fili.
La «soluzione» che ora arriva con l’operazione “Ombre rosse” ad anni di distanza sembra aver dimenticato tutto ciò. Invece proprio la motivazione politica di quegli episodi richiede che il tema sia affrontato anche e soprattutto sul piano politico. La risposta carceraria a vicende di trenta o quarant’anni fa stride proprio con quell’impostazione di reinserimento sociale che ogni esecuzione penale, secondo la Costituzione, deve avere.
Occorrerebbe una capacità politica ‘lata’ – si parla di amnistia, ma questo parlamento non la voterebbe mai – per trovare quel necessario equilibrio tra l’affermazione della negatività di quanto vissuto da chi di tali vicende è stato vittima, e il riconoscimento che la stessa vita vissuta fuori dal proprio contesto e in maniera visibile al Paese di accoglienza nonché positiva e rispettosa delle sue regole non può non aver valore nella valutazione odierna, anche perché anch’essa non è stata priva di dolore.
Riconoscere insomma il principio di “verità senza vendetta”, penso all’insegnamento che ci viene dall’esperienza della lotta d liberazione in Sudafrica. Questo può dare oggi l’indicazione affinché ci si avvii lungo vie diverse, che non interrompano inutilmente percorsi di vita.
Tommaso Di Francesco da il manifesto
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Perché Sergio Mattarella dovrebbe graziare brigatisti e militanti estradati dalla Francia
Oggi la Francia ha estradato in Italia sette tra ex militanti dell’estrema sinistra ed ex brigatisti, tra loro l’ex leader di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani. Sergio Mattarella ha ora la possibilità di chiudere la pagina dei lunghi anni ’70 italiani concedendo la grazia a prigionieri spesso anziani e ammalati, riconoscendo la complessità della stagione della lotta armata non solo come un fatto criminale.
Questa mattina la Francia ha arrestato, su richiesta dell’Italia 7 ex brigatisti e militanti dell’estrema sinistra da tempo rifugiati Oltralpe. Si tratta di Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse, Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e di Narciso Manenti dei Nuclei Armati per il contropotere territoriale. A loro vanno aggiunti i nomi dei tre brigatisti Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura.
La notizia è stata resa nota questa mattina dell’Eliseo, e rappresenta forse la definitiva archiviazione della cosiddetta Dottrina Mitterand, che ha permesso a partire dagli anni ’80 a molti militanti delle formazioni armate e non solo italiane di riparare in Francia.
La ragione di questa politica inaugurata dall’ex presidente socialista François Mitterrand non era certo la consonanza con le idee di chi trovava un rifugio in Francia, ma la constatazione che la guerra al terrorismo in Italia non garantiva un equo e giusto processo con gli strumenti della legislazione d’emergenza. Posizioni e un dibattito che suonano oggi desueti all’opinione pubblica italiana e francese, ma che ebbero una loro forza e ragione d’essere.
Ogni ministro dell’Interno e della Giustizia delle ultime legislature in Italia si è battuto per potersi intestare l’estradizione degli ultimi fuggiaschi della storia delle formazioni armate italiane, chiedendo alle istituzioni francesi di fare la loro parte con risultati altalenanti fino a questo mattina.
La stampa si è mobilitata per riavere indietro i condannati in contumacia da sbattere in cella. Eppure anche se è cambiato il clima politico non sembrano essere venute meno le ragioni che giustificarono la dottrina Mitterand.
Si tratta di uomini e donne che da decenni vivono lontani dall’Italia. Nella quasi totalità dei casi hanno condotto una vita lontano dai riflettori, che in pochissimi casi si sono dedicati all’impegno politico e sociale rifacendosi una vita. Quella dello Stato italiano più che giustizia assomiglia a una vendetta esercitata fuori tempo massimo.
I prigionieri in arrivo in Italia sono anziani, spesso malati, le organizzazioni di cui hanno fatto parte così come le loro gesta (compresi sequestri e omicidi), sono solo oggetto di riflessione storiografica. Perché allora non si riesce a storicizzare la memoria politica degli anni ’70?
Tra gli arrestati oggi spicca il nome di Giorgio Pietrostefani che è stato uno dei dirigenti di vertice di Lotta Continua e che oggi ha 77 anni. Pietrostefani è stato protagonista di uno dei processi più discussi della storia italiana, quello che lo voleva come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi assieme ad Adriano Sofri.
Con Sofri e Bompressi furono processati anche Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per essere gli esecutori materiali dell’omicidio. Come è noto Marino era il pentito che accusava gli altri tre imputati sempre dichiaratisi innocenti. Bompressi fu graziato per il suo stato di salute, mentre Adriano Sofri è stato definitivamente scarcerato nel 2012 senza mai interrompere la sua attività di saggista e giornalista.
Oggi Pietrostefani è un uomo anziano e malato – nel 2016 è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico – i reati di cui è accusato stanno per cadere in prescrizione. Nel 2000 era riparato in Francia in attesa della revisione di un processo che ha lasciato molti dubbi nell’opinione pubblica e negli storici. Che senso ha punirlo oggi strappandolo dalla sua casa dopo 21 anni per portarlo in una cella dove evidentemente non potrà rimanere?
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha un’occasione importante oggi: concedere la grazia ai cittadini italiani estradati dalla Francia. Sarebbe l’occasione per strappare da un discorso esclusivamente giustizialista la stagione politica dei lunghi anni ’70 italiani, restituendolo a una sua piena storicizzazione voltando finalmente pagina.
Per farlo sarebbe necessario che lo Stato riconoscesse la complessità del contesto in cui la lotta armata nel nostro paese coinvolse in modo diverso decine di migliaia di uomini e donne, che si trattò di un fenomeno politico e sociale e non di un fenomeno criminale, anche quando le condanne riguardano fatti estremamente gravi come omicidi e sequestri di persona.
Non si tratta di punire poche belve assetate di sangue come vengono presentati oggi gli arrestati, ma di esercitare una giustizia giusta su uomini e donne che già hanno pagato con decenni di esilio molti dei fatti per cui sono stati condannati.
Valerio Renzi da Fanpage
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La lucida analisi di Vasapollo sulla potente macchinazione italo-francese. E Scalzone cita Primo Levi
C’è molto dolore in chi per la sua storia personale si sente (e sempre è rimasto) vicino agli esuli italiani a Parigi, contro i quali si è mossa una potente macchinazione italo-francese, segno di un’alleanza stretta tra due governi che cercano a destra la loro legittimazione.
Ma non è solo una reazione basata su sentimenti individuali, c’è anche l’analisi politica, lucida e oggettiva di quanto sta accadendo nell’indifferenza generale. Un’operazione che mette a rischio democrazia e stato di diritto in due paesi che ne sono in un certo modo i fondatori.
“Questa è una vendetta sugli anni Settanta, si gioca una partita di vendetta contro chi ha cercato di mettere in discussione già allora gli attuali assetti dichiarando oggi che non c’è una possibilità di rottura, di trasformazione, respingendo senza appello le istanze che portano avanti il movimento operaio e il movimento studentesco”.
Conversando con FarodiRoma, Luciano Vasapollo, della segreteria della Rete dei Comunisti e autorevole firma di questo giornale online, sottolinea “le contraddizioni dell’Italia di oggi, il paese delle stragi impunite, dei killer fascisti e dei servizi segreti deviati, che l’hanno sempre fatta franca, di stragi che non si sa chi le ha fatte, mentre i compagni sono stati ammazzati, vittime di una guerra civile strisciante”.
“Davanti a queste cose – si chiede il professore – che senso ha prendersela con gli esuli a Parigi, che hanno pagato il prezzo alto dell’esilio mentre i fascisti, rei confessi delle stragi, dichiarandosi pentiti circolano liberamente per le nostre strade?”.
“I compagni – rivendica Vasapollo – tutti hanno pagato duramente, con il carcere o con l’esilio. E ora, dopo 40 anni, te li porti in galera, qui nel paese delle stragi impunite, dei colpi di stato, dei processi fondati sulle mezze verità dette da un pentito che, relata refero, le riporta da altre fonti incontrollabili e su questa base si prende l’ergastolo…”
Gli arresti dei sette terroristi a Parigi “sono più di una vendetta, non basterà mai. I familiari delle vittime saranno più frustrati e infelici di prima, e si chiederà sempre di più: l’assassinio dell’anima”, afferma Oreste Scalzone, co-fondatore di Potere Operaio da sempre strenuo difensore dei “terroristi” che con lui soggiornano impuniti a Parigi grazie alla copertura delle autorità francesi, contrariamente a chi vede in questi arresti un tributo di giustizia per le vittime, parlando da Parigi con l’Adnkronos, dice che siamo davanti a qualcosa che va oltre la “vendetta”.
“Stamani – racconta Scalzone – parlando degli arresti qualcuno mi ha detto: ‘Sembra essere tornati indietro di 40 anni. Ma no, non è così, sembra di essere saltato avanti, verso un orrore verso cui stiamo andando. Il Novecento è cominciato con l’immane macelleria della prima guerra mondiale, poi sono seguiti gli altri orrori. Tutto questo breve secolo è stato un ‘libro nero’ ma il punto nuovo è la velocizzazione, l’intensità”.
Gli arresti di oggi hanno riportato alla mente di Scalzone le parole di Primo Levi. “C’è come una accelerazione all’annichilimento totale, una vendetta vertiginosa, assoluta ma esiste anche l’oblio, il perdono per cose atrocissime. In tutte le società ci sono stati gli oblii che hanno permesso di tornare a respirare, ecco perché dico che questa è più di una vendetta”.
Oreste Scalzone dice che “non è solo la vendetta tardiva dello Stato, è qualcosa che va oltre. Qui non c’è la ‘damnatio memoriae’ c’è anche la volontà di assassinio dell’anima”. Secondo Scalzone “il Novecento italiano non si chiuderà mai perché si punta ad assassinare l’anima”.
E il tributo di giustizia alle vittime di tante atrocità? “Questi arresti – replica Scalzone – non consoleranno le vittime. I familiari delle vittime saranno come prima se non più infelici e frustrati di prima. Mi vengono in mente le parole del figlio di una vittima che dopo l’esecuzione di un condannato a morte col veleno disse: ‘Non mi è bastato. Sto come prima perché è durata troppo poco’. Le vittime sono vittime anche di questo. Non è come morire due volte?”.
da IlFarodiRoma
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Christian Raimo: “Arresto ex-terroristi, per rimarginare le ferite serve un’amnistia”
L’assessore alla Cultura del III municipio di Roma, Christian Raimo, commenta la notizia dell’arresto di sette ex esponenti della lotta armata che avevano trovato rifugio in Francia. “È come se negli ultimi quarant’anni non fosse accaduto nulla e oggi fossimo ancora nel 1979”. Duro il suo giudizio anche sullo scontro ideologico che non permetterebbe l’elaborazione storica di quegli anni: “Le ferite si possono rimarginare solo se c’è la volontà di curarle, non se si vuole affondare il coltello per riaprirle”
Nelle ultime ore ha suscitato molto clamore la notizia dell’arresto dei sette ex militanti appartenenti alle Brigate Rosse, Lotta Continua e Nuclei Armati per il Contropotere, che da anni ormai avevano trovato rifugio e vivevano in Francia. Lei che idea si è fatto su questa vicenda?
“Sono abbastanza stupito, perché sembra che tutta la riflessione teorica e storica, anche sul ruolo e sugli strumenti della giustizia, sia passata completamente invano. È come se il ripensamento storico e politico di quegli anni non esistesse affatto, come se non fosse accaduto nulla e oggi fossimo ancora nel 1979 e non nel 2021. Anche la dottrina Mitterrand in questo modo viene ridotta ad una sorta di complicità con i terroristi, mentre chiaramente aveva una funzione diversa, ovvero di ‘ridemocratizzare’ una parte del Paese che invece aveva scelto la lotta armata. Oggi con questi atti si vogliono minare i principi stessi dello stato di diritto, perché uno stato di diritto è quello che cerca di dare un senso utilitaristico alla pena, non solo vendicativo, altrimenti significa che è lo Stato ad essere debole e non le organizzazioni di lotta armata di cinquant’anni fa”
Tramite un post su Facebook ha paragonato gli arresti di stamattina in Francia con quelli avvenuti in Italia il 7 aprile del 1979, quelli del teorema Calogero, per quale motivo?
“Perché nel 1979, di fatto, si proponeva una soluzione, tutta penale, per un reato di opinione, mettendo insieme un’area culturale molto vaga solo per poter colpire, in realtà, quella che era un’area di militanza. Ma almeno lì c’era una guerra politica in atto, oggi non ci sono nemmeno più i reduci di quel tempo e, di fatto, ciò che rimane è solo uno scontro ideologico e culturale. Il brigatismo rosso viene visto anche oggi come un’area di pensiero culturale e politica ancora viva, che bisogna colpire e sanzionare, ma quest’area non esiste più, né come organizzazione, né come cultura politica. Le sette persone arrestate non hanno alcun ruolo pubblico, le loro vite sono completamente diverse da quelle di quarant’anni fa e soprattutto non rappresentano nessun pericolo pubblico per la vita di nessuno. Ragionare su un’amnistia invece, quello sì che rafforzerebbe il valore e la forza stessa dello Stato “
Perché un’amnistia?
“Perché in questi quarant’anni è cambiato tutto, e perché la stragrande maggioranza delle persone che hanno vissuto quella stagione, ha ormai preso fortemente le distanze dalla lotta armata e persino dalla militanza. Ma soprattutto perché c’è un lavoro immenso da parte di storici, giuristi, penalisti e politici che hanno riflettuto su come creare un percorso storico, ma anche istituzionale, riferito a quegli anni. Non possiamo pensare di applicare una forma di emergenzialismo come fosse ancora il 1979, sarebbe assurdo. Oggi le persone non conoscono nemmeno le differenze tra le varie organizzazioni armate militanti, eppure sembra che dentro la società ci siano delle ferite ancora non rimarginate…”
Sono esattamente queste le parole pronunciate dal premier Draghi commentando la notizia degli arresti: “Soddisfazione per una decisione che richiama una ferita ancora aperta”
“Sì, ma quelle ferite si possono rimarginare solo se c’è la volontà di curarle, non se si vuole affondare il coltello per riaprirle. Ci sono percorsi politici molto importanti che per esempio hanno permesso l’incontro tra le vittime e i responsabili degli anni della lotta armata. Potrei citare il “Libro dell’Incontro” (a cura di Bertagna, Beretti, Mazzucato, 2015- ndr) che in qualche modo propone dei modelli, e che ha fatto parte di un percorso politico enorme, grazie al quale oggi riusciamo a ragionare sulla militanza armata in modo completamente diverso. Non si tratta di una pacificazione che annulla gli atti e le differenze, ma della possibilità di reinserire un corpo ferito nel tessuto vivo della società”
La riflessione storica e le reazioni politiche
E la giustizia che invece richiedono i familiari delle vittime di quella stagione?
“L’amnistia inchioda le persone che hanno compiuto quegli atti ad una responsabilità di riflessione storica. L’amnistia è l’esatto opposto della parola amnesia, perché vuol dire inserire finalmente quella memoria dentro il corpo politico. I familiari delle vittime sarebbero le prime persone che verrebbero tutelate di più, se ci fosse una riflessione storica sugli atti che sono stati compiuti in quel contesto. Concedere l’amnistia non vuol dire mica cancellare ogni responsabilità, ma elaborarla in modo più profondo: questo vale sia per chi quegli atti li ha commessi, sia per chi ne è stato ferito e non parlo solo dei familiari delle vittime, ma della società intera. Solo così possiamo uscire da una giustizia di stampo emergenzialista e quasi vendicativa, per maturare invece un senso comune in cui giustizia e storia sono un tutt’uno, riuscendo così a ricostruire la comunità politica”
Eppure le reazioni da parte del mondo politico sono state praticamente unanimi: da Salvini a Renzi, fino a Letta, hanno tutti espresso soddisfazione per gli arresti.
“Per fortuna, ci sarà una fase di riflessione diversa, perché le nuove generazioni hanno un’ idea della giustizia, del diritto e dell’elaborazione storica molto differente. Non mi sorprende che questo tipo di reazione entusiasta sia trasversale dalla Lega al Pd, anche perché penso che da Tangentopoli in poi lo stato di diritto sia stato minato dalle sue fondamenta. Chi invece mi ha un po’ deluso è stato Enrico Letta, che avendo vissuto e studiato in Francia, conosce, anche da un punto di vista storico, l’importanza che ha avuto la dottrina Mitterrand e quanti danni, invece, abbia prodotto l’emergenzialismo italiano. Ecco, diciamo che questo accodarsi acritico ad una ripetizione stantia di alcuni slogan mi è sembrato abbastanza mediocre”
Da innews24.it
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Cacciari: «Vendetta tardiva e patetica, senza alcun senso»
«Punire adesso qualcuno per reati commessi quaranta, cinquant’anni fa? Mi sembra patetico, non ha nessun senso: evidentemente non avevano niente di meglio da fare». È il secco commento di Massimo Cacciari, che interviene così sulla notizia dell’arresto, in Francia, dei 7 ex terroristi degli Anni di Piombo, tra cui i mandanti dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi.
«Gli arrestati non sono più quelle persone, non è più quel mondo, è pura perdita di tempo». E sulle parole di Mario Draghi, che ha espresso «soddisfazione» per la cattura sottolineando che «la memoria di questi atti barbarici è ancora viva», l’ex sindaco filosofo controbatte lapidario: «Non è nient’altro che una vendetta tardiva. Una cosa diversa è avere memoria di quegli anni e fare un discorso storico come si deve, che forse non è mai stato fatto, di critica e autocritica anche spietata di quegli anni».
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Pietrostefani e la stagione dell’ergastolo ottativo
La dottrina Mitterrand ha realizzato un fine solenne: il ripudio della violenza da parte dei suoi autori. Avrei voglia di essere cinico, per adeguarmi. C’è quell’aneddoto famoso sul novembre del 1947, la destituzione del prefetto di Milano Troilo, che era stato un comandante partigiano, e la ribellione della città. Manifestanti e partigiani occuparono la Prefettura, e da lì Giancarlo Pajetta telefonò a Roma.
“Compagno Togliatti – disse fieramente – abbiamo occupato la Prefettura!” “Bravo, e adesso che ve ne fate?” Mercoledì mattina un’operazione congiunta di polizie e intelligence francesi e italiane – una retata, in ora antelucana, come da regolamento – ha portato all’arresto di “7 ex terroristi” a Parigi. Bravi! E adesso che ve ne fate? Vediamo. Si trattava di riacciuffare finalmente persone dichiarate colpevoli da tribunali italiani di reati commessi fra i 50 e i 40 anni fa.
Naturalmente, la justice est lente, elle est lente mais elle viene, è lenta ma arriva, come dice la canzone della Comune di Parigi, che aspetta ancora. Accantonando per qualche riga il mio intimo legame con uno dei catturati, ho un paio di osservazioni generali, suscitate dal battage dei giorni precedenti il “blitz”. La prima, sul numero dei ricercati: 11 (undici), ridotti nel giro di pochi giorni a 10 (dieci) forse perché per uno di loro era intervenuta la prescrizione, imminente anche per altri. Ora, gli italiani riparati in Francia durante o dopo gli anni cosiddetti di piombo erano stati alcune centinaia. Dove sono andati a finire? Non sono abbastanza al corrente della questione.
A occhio direi che uno (1), Paolo Persichetti, fu estradato con un vero colpo di mano delle polizie francese e italiana: è oggi libero, trovate in rete adeguate ricostruzioni della sua vicenda. Alcuni, pochi, vennero spontaneamente a consegnarsi in Italia, come Toni Negri. E la moltitudine restante? Molti sono stati prescritti, alcuni sono morti di vecchiaia o di malattia, uno si è ucciso poco fa buttandosi giù da una finestra. La sporca decina che oggi fa i titoli di testa è il fondo del barile. A questa constatazione si lega la prossima, la più clamorosa.
Nei decenni trascorsi dopo il rifugio in Francia, non uno – se non sbaglio – non uno dei condannati ha commesso un solo reato. Questa era del resto una condizione alla loro accoglienza, ma non è la spiegazione. La spiegazione sta in un radicale passaggio di pensieri, linguaggi, sentimenti e stati d’animo, come avviene dopo ogni guerra, anche le guerre più immaginate. Come avviene “la mattina dopo”. Che nessuna e nessuno di quelle centinaia abbia più aperto conti con la giustizia penale è l’inesorabile dimostrazione che le loro azioni appartenevano a una temperie politica, comunque distorta, e non le sarebbero sopravvissute.
Di recente un commentatore, uno dei migliori, aveva scritto sul suo quotidiano, col benigno proposito di negare ogni legame fra il “Sessantotto” e gli adepti della “lotta armata”: “Io non credo che appartengano, neri e rossi, alla storia della politica, se non come sfondo scenografico e come alibi, ma alla storia della criminologia…”. Non è vero: una vocazione al crimine per il crimine si sarebbe trovata un’intera gamma di alibi per continuare. Al contrario, la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che è stata in realtà la pratica di Mitterrand, di Chirac, di Sarkozy, di Hollande e, fino a ieri, di Macron, ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità.
La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente. Del resto, ricordate che cosa era successo fra le persone che, con una esperienza affine a quella dei rifugiati in Francia, erano state incarcerate in Italia. Una loro gran parte aveva dato vita al patto che andò sotto il nome di “dissociazione”, e permise un ripudio della lotta armata e della violenza che non dovesse sottoporsi alla denuncia di altri, non motivata dalla necessità di sventare minacce attuali. L’obbligo della delazione è infatti il più infernale ostacolo al pentimento.
Quel processo ebbe una importante incubazione nell’interlocuzione di detenuti “politici” con il cardinale arcivescovo milanese Martini, e il simbolico (manzoniano) compimento con la consegna delle armi nel suo vescovado. È curioso, diciamo così, che la spettacolosa svolta della retata di pensionati d’oltralpe abbia seguito da vicino il pronunciamento della Corte Costituzionale sull’incostituzionalità dell’ergastolo cosiddetto ostativo. Suggerisco al ministero una variazione lessicale, per i nuovi arrivi eventuali: l’ergastolo ottativo. Il treno dei desideri. Li avete presi: e ora che ve ne fate? E veniamo al mio interesse personale.
A Giorgio Pietrostefani, “Pietro”, già condannato a 22 anni come mandante dell’omicidio Calabresi. Non farò torto alle altre e gli altri della retata osservando che è lui il piatto forte. I titoli ne sono così inebriati da dimenticare ancora una volta che i giudici del nostro processo, pur temerari, rinunciarono a invocare nei nostri confronti l’aggravante del terrorismo. Nell’intervallo fra la loro tentazione di farlo e la precipitosa rinuncia fu assassinato Mauro Rostagno. Ciò non ha impedito, ancora ieri, che giornali e telegiornali fregiassero Pietrostefani del titolo di “ex-terrorista”, e non di rado di quello cumulativo di “brigatista”.
Sono distratti. Non hanno artigli, ma unghie lunghissime sì, da esibire brindando. Non mi preme distinguere fra le persone della retata, come sono oggi; al contrario, sono solidale. (Con le loro vittime, da sempre). Però non conosco le altre, e conosco Pietro. Lavorava in Francia prima d’esser condannato, venne spontaneamente in galera quando fu il momento, decise molto a malincuore di non tornarci dopo la revisione mancata della nostra condanna: aveva ragioni famigliari stringenti che prevalsero sul suo orgoglio.
In Francia ha sempre lavorato, avuto residenza regolare, pagato le tasse, condotto vita discreta di vecchio uomo e di nonno. Il suo indirizzo era noto a chiunque volesse trovarlo. La Francia che gli ha dato ospitalità gli ha dato anche un fegato di ricambio, salvandogli la vita con un trapianto in un’età che in Italia non lo avrebbe consentito. La sua condizione sanitaria è cronicamente arrischiata, e il suo avvocato provvederà, o avrà già provveduto, a documentarla al giudice. Pietro vive di lunghi ricoveri regolari e di improvvisi ricoveri d’urgenza, oltre che di quotidiani farmaci vitali. Ha in programma di qui a poco un ennesimo intervento di riparazione nel suo ospedale parigino. Tutto ciò non deve intenerire nessuno, né i privati né, tantomeno, il cuore dello Stato.
Da quando ho ricevuto la notizia del suo arresto sono combattuto fra due sentimenti opposti, quasi cinici: la paura che muoia nelle unghie distratte di questa fiera autorità bicipite transalpina e cisalpina, e un agitato desiderio che torni in Italia. Un desiderio da vecchio amico, e anche lui è vecchio, forse ce l’ha anche lui un desiderio simile. Ho una postilla. Poiché ho sempre saputo che la dedizione, l’esaltazione, il fanatismo, che segnano certe stagioni di passione politica, e hanno e si trovano radici forti e profonde, sono pronte a cadere la mattina dopo, mi posi presto e fervidamente il problema di un’uscita dagli anni dei terrori.
Mi stava a cuore la socievolezza, Lotta Continua si era sciolta nel 1976, vivevo altrove e senza alcun interesse personale. Il 9 ottobre del 1979 pubblicai su LC, sopravvissuto come giornale quotidiano, tre fitte pagine sul problema, dopo averne discusso accanitamente con Sandro Pertini presidente, col quale avevo rapporti molto amichevoli. Si intitolavano “Amnistia generale. Firmato: Togliatti”. Sapete, l’amnistia del ’46, delle “sevizie particolarmente efferate”. Scrivevo che “nell’atteggiamento attuale del Pci sul terrorismo, qualche discorso di maniera sulla natura sociale del problema, sul mancato rinnovamento dello stato e così via, si riduce alla fine a un’analisi che privilegia il complotto, e a una prognosi che prescrive solo sopraddosi di polizia… Tuttavia il buonsenso induce a ritenere che passerà più o meno tempo, ma delle galere piene di terroristi veri o presunti, e di una condizione carceraria ricacciata nell’isolamento e nella violenza, lo stato e i suoi uomini saranno costretti a occuparsi”.
Pertini era stato un avversario strenuo dell’amnistia di Togliatti guardasigilli. Aveva denunciato in Parlamento che erano stati scarcerati “i più sporchi propagandisti fascisti insieme a molte canaglie repubblichine”. Le mie pagine del 1979 finivano così: “Dei protagonisti di quella discussione del 1946, uno, Pertini, conserva un’intransigenza dalla quale si può anche radicalmente dissentire (com’è successo per noi rispetto alla sorte di Moro) ma che non si può sospettare d’incoerenza né di insincerità.
Altri, i continuatori di Togliatti, sembrano tenerne ferma la lezione di spregiudicatezza strumentale… Ieri ne è venuta fuori un’amnistia indiscriminata, oggi si esclude perfino la possibilità di discutere apertamente il problema di una nuova misura politica. Fino a quando?” Ecco, fino a quando. Mai.
Adriano Sofri da il foglio
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