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Rémi Fraisse, ucciso una squadra fantasma di gendarmi

Remi-Fraisse

Cosa è successo la notte tra il 25 e il 26 ottobre a Sivens (Tarn), quando è morto Rémi Fraisse? Alla luce dell’istruttoria e delle tante testimonianze, la rivista francese Reporterre rivela una nuova versione dei fatti, che contraddice quella ufficiale. Quella notte era presente una squadra fantasma di gendarmi. E il suo unico obiettivo non era quello di difendere la zona.

Pensavamo d’aver letto tutto sulla morte di Rémi Fraisse. E di avere ormai la versione ufficiale e definitiva dei fatti: la notte tra il 25 e il 26 ottobre 2015, a Sivens, quello che doveva essere un presidio pacifico, per opporsi al progetto della diga, finisce in tragedia. Le forze dell’ordine sono incaricate di difendere il prefabbricato del cantiere, posto poco distante dal luogo dove è previsto il progetto. Il prefabbricato serve d’abitudine come deposito per gli attrezzi utilizzati nel cantiere, ma quella notte, non c’è alcun attrezzo. Gli scontri con i manifestanti continuano nella notte. All’1 e 45 del mattino, una granata offensiva, lanciata dalle forze dell’ordine, uccide, sul colpo, un ragazzo.

A circa un anno e mezzo dalla tragedia, il processo, affidato ai giudici di Tolosa Anissa Oumohand e Élodie Billot, è ancora in istruttoria. Un’inchiesta che ha prodotto un dossier di migliaia di pagine. Reporterre ha avuto accesso alle informazioni e, da parecchi mesi, ne sta spulciando i dettagli. In particolare, un centinaio di testimonianze dei gendarmi e i resoconti tecnici, che sono stati confrontati e messi in relazione con le testimonianze dei manifestanti e da altre fonti interrogate dai giornalisti della rivista francese.

Una volta tradotto il gergo militare, affiorano non poche contraddizioni ma anche vere e proprie rivelazioni: l’esistenza di un quinto plotone di gendarmi mobili, finora celata nella versione ufficiale fornita dal dispositivo delle forze dell’ordine presente nella notte tra il 25 e il 26 ottobre.

Riprendiamo tutto nei dettagli: non la versione ufficiale finora diffusa, ma quella che rivelano le testimonianze dei gendarmi.

Più la serata avanza, maggiori sono le contraddizioni

 Il dossier attesta la presenza dello squadrone di gendarmi mobili 28/2 de La Réole sul luogo degli scontri. In serata, tutto è calmo. A mezzanotte, i 72 militari dello squadrone si posizionano sul fianco nord, dietro e all’interno del prefabbricato, uno spazio protetto da griglie in metallo dove di norma sono posteggiate le macchine utilizzate sul cantiere. I gendarmi fronteggiano prima i manifestanti più calmi. S’accende qualche fuoco, gli oppositori si avvicinano. Poi, secondo il gendarme incaricato di filmare, che commenta ad alta voce gli avvenimenti, la tensione sale: “Abbiamo intimato loro di fermarsi […]. Cominciano a piovere sassi sui veicoli”, indica la trascrizione dei video realizzata dagli investigatori. Gli scontri dureranno più di quattro ore.

A mezzanotte e cinquanta, sempre secondo gli stessi video, il capitano J., a capo dello squadrone, ordina: “Per India: ritirati […]. Restiamo tranquilli per il momento e manteniamo le fila finché il quinto plotone non arriva a livello dei veicoli”.

“Quinto plotone”: da dove è uscito? Lo squadrone di gendarmeria mobile dispiegato per il mantenimento dell’ordine è diviso in quattro plotoni di marcia (chiamati India, Alpha, Bravo e Charlie). Questi plotoni sono divisi poi in due gruppi, 1 e 2. Lo squadrone comporta in più un plotone di comandamento che non è stato mai considerato come un quinto plotone. Qual è allora il quinto plotone di cui parla il capitano J.?

La risposta non si trova da nessuna parte. Almeno non nel dossier dedicato all’affaire Rémi Fraisse. Ancora più strano è il fatto che non ci sia nessuna traccia del quinto plotone nella trascrizione del video realizzata dall’IGGN (Ispezione generale della gendarmeria nazionale). Così, dopo il controllo incrociato dell’insieme delle testimonianze, questo quinto plotone resta impossibile da identificare al momento più intenso degli scontri.

Inoltre, un gruppo di gendarmi del dispositivo impiegato quella sera, il gruppo Charlie 2, è particolarmente difficile da localizzare. Il gruppo è composto da cinque militari, quattro giovani reclute, dai 22 ai 27 anni, e dal maresciallo maggiore C., più esperto. Il maggiore afferma nella sua testimonianza di aver piazzato il suo gruppo “giusto dietro” la zona del cantiere. Sorge però un problema: i gendarmi S. e B., membri di Charlie 2, indicano, loro, d’aver “preso posizione sulla sinistra del dispositivo, di fronte ai manifestanti”. Ovvero dall’altro lato. I militari degli altri gruppi non sono stati in grado di dire con precisione dov’erano i loro colleghi del gruppo Charlie 2. Inoltre, più la serata avanza, maggiori sono le contraddizioni: svolgimento impreciso dei fatti, pochi dettagli, ricordi vaghi sulle azioni effettuate, fino alla completa impossibilità di localizzare il gruppo Charlie 2 a partire dall’una del mattino.

Chi è questa squadra fantasma? Charlie 2 o il quinto plotone? Non lo sappiamo. Ma quella sera c’era sicuramente un gruppo di gendarmi, fuori dal prefabbricato, che agiva di nascosto. È quello che confermano le testimonianze dei manifestanti.

Il gruppo fuori dalla base prefabbricata

Verso l’una del mattino, Marc si avvicina il più possibile ai gendarmi. Marc è un oppositore di lunga data al progetto della diga e la notte tra il 25 e il 26 ottobre si trova di fronte alla base difesa dai gendarmi, sul terreno che il cantiere delle ultime settimane ha trasformato in una lastra d’argilla. Da qui, Marc vede due veicoli avanzare “a luci spente” verso il fiume, il Tescou, e attraversare la zona umida: “i gendarmi hanno attraversato il Tescou e si sono posizionati esattamente di fronte a noi. Erano otto, sono arrivati a piccoli gruppi”, dichiara Marc ai giudici nella sua testimonianza nel febbraio del 2016. Nel disegno qui sopra, sono rappresentati come ‘squadra fantasma’.

Un’informazione, questa, negata con fermezza dai militari: “È impossibile”, afferma il maresciallo J., durante la sua testimonianza, quando i giudici gli chiedono se un gruppo si trovasse effettivamente fuori dal prefabbricato. Eppure, la presenza di questa squadra è confermata da altri manifestanti. Christian, ad esempio, che già qualche ora dopo l’accaduto dichiarava come i gendarmi fossero presenti a sinistra della base. “Erano sette o otto, con gli scudi davanti e i flashball dietro, si proteggevano dietro un ceppo d’albero e tentavano d’avanzare”, precisa Christian.

I gendarmi escono dall’ombra e poi sono di nuovo inghiottiti dall’oscurità. A più riprese. Elisa (nome modificato), una dei manifestanti, ha osservato i loro movimenti: “si nascondevano, e quando ci avvicinavamo, uscivano di nuovo allo scoperto, ci attaccavano passando per il fossato e si trovavano sicuramente fuori dalla base prefabbricata”, ha dichiarato a Reporterre.

Vicino a questa squadra fantasma, nell’angolo della griglia di protezione dove sono riparati gli altri gendarmi, Elisa nota “una persona con le mani alzate, sul ciglio del fossato, che è rimasta per un bel po’ in questa posizione”, assicura ai giudici lo scorso febbraio. I militari allora “hanno cominciato a tirare ancora più vicino a noi”, continua. Secondo numerose testimonianze, al momento dello scoppio delle prime esplosioni l’oscurità è totale. Rémi Fraisse, colpito alla schiena da una granata, cade a terra, in prossimità del fossato, e muore sul colpo. Elisa non scorge più la persona con le mani in alto. È l’1 e 45 del mattino.

Appena qualche istante prima, una granata offensiva di tipo OF-F1 è stata lanciata in quella direzione dal maresciallo J, a capo del gruppo Charlie 1, il solo del suo gruppo abilitato a utilizzare questo tipo di arma. Molto presto, i militari che l’accompagnano scorgono una “sagoma scura” a terra e lo segnalano alla gerarchia. È il momento in cui, secondo il racconto dei gendarmi, Charlie 2 compare di nuovo. Avrebbe ricevuto l’ordine di dare manforte a Charlie 1. E mentre nessuno ha ancora formalmente identificato il corpo, il maresciallo C. di Charlie 2 afferma nella sua testimonianza: “Sono intervenuto alla radio per confermare che si trattava proprio di una persona, il suo viso verso di noi, i piedi in direzione del ruscello e la testa rivolta verso il portale”. Com’è possibile che sia più preciso dei testimoni di Charlie 1, se Charlie 2 è appena arrivato? Questa precisione è sorprendente. Salvo il caso in cui Charlie 2 fosse già presente sul posto al momento del lancio.

Ma, nell’istante della morte di Rémi Fraisse, il maresciallo J., ultimo a lanciare una granata secondo i gendarmi, non fa alcun collegamento di causa e effetto tra il lancio e la persona a terra. Pensa perfino di aver lanciato “un po’ più a destra”. Gli altri membri della sua squadra, Charlie 1, sentono l’esplosione ma dichiarano di “non aver visto il posto in cui è caduta la granata”. Quello che è certo è che Rémi cade a terra dopo l’esplosione di più granate. I testimoni, vicini o lontani, sono unanimi su questo punto: “Ci hanno scaricato sopra una valanga di colpi, abbiamo sentito tre granate esplosive allo stesso tempo”, dice Christian. Lui si trova a pochi metri dal ragazzo caduto a terra e lo scorge mentre viene “trascinato come un cane dai gendarmi”. Nicolas (nome modificato), appostato su una collina che domina la scena degli scontri, dichiara agli investigatori d’aver sentito “tre esplosioni sicure”. Più deflagrazioni, una di seguito all’altra, sono ugualmente attestate da Elisa: “in quel momento, ho sentito 3 o 4 granate”, afferma.

Un’altra granata potenzialmente mortale

Tra le tante munizioni utilizzate dalle forze dell’ordine, sarebbero state lanciate 23 granate offensive. Anche la cosiddetta squadra fantasma ne ha utilizzate? Non lo sappiamo. In ogni caso, una di queste 23 granate ha causato la morte di Rémi Fraisse. Un’altra avrebbe potuto uccidere Mélody (nome modificato), appena 15 minuti prima della morte di Rémi. Ecco la sua storia.

Contattata da Reporterre, la giovane manifestante racconta che, scioccata dalla violenza dei gendarmi, si è piazzata davanti a loro. “Ho alzato le mani per mostrare loro che non avevo sassi. Ho intimato loro di smetterla di tirare ad altezza umana. E poi, non ho più capito niente, sono saltata in aria e mi sono ritrovata a terra. Ero completamente terrorizzata. Ho pensato davvero di stare per morire”. Descrive “qualcosa che è esploso giusto accanto a me, con un rumore fortissimo”, un dettaglio caratteristico delle granate offensive. La ragazza racconta inoltre d’essere stata trascinata brutalmente dai gendarmi che l’hanno portata all’interno del prefabbricato e solo dopo aver scoperto che fosse una ragazza hanno desistito dal picchiarla in viso.

Il suo racconto è notevolmente diverso da quello dei gendarmi, che parlano invece di una “missione di soccorso” in favore di una manifestante “caduta in seguito ai tiri di flashball” e poi “curata”. Segnalata all’1 e 28 del mattino come una “persona interrogata”, Mélody è poi rilasciata durante la notte, senza spiegazioni. Il comandante delle operazioni spiega nella sua testimonianza di averla lasciata andare in seguito “all’assenza di Ufficiali della polizia giudiziaria sul posto”. Tuttavia, dall’1 e 20, un Ufficiale di polizia giudiziaria, il solo abilitato a procedere agli arresti, è sul posto, ben consapevole di essere lì allo scopo di “poter autorizzare misure di fermo preventivo per i manifestanti che sarebbero stati interrogati”, dichiara agli investigatori.

I gendarmi specializzati negli interrogatori giocano un ruolo confuso quella sera. Si tratta del PSIG locale (Plotone di sorveglianza e intervento della gendarmeria). Questa unità, equivalente militare della BAC (brigata anticriminalità), è già abituata alla ZAD (zone à défendre, zona da difendere, ndt) di Sivens ed è stata inoltre responsabile di numerosi casi di violenza durante le settimane precedenti. Tra i plotoni del PSIG presenti quel fine settimana, uno di questi è incaricato di restare a Sivens fino a mezzanotte, ma non c’è nessuna traccia nel dossier sul fatto che abbia effettivamente lasciato la zona. Un altro sparisce completamente dai radar fino all’arrivo degli investigatori sul posto, un’ora dopo la morte di Rémi Fraisse. È il PSIG allora il famoso plotone fantasma? La questione resta aperta ma è chiaro che le autorità hanno tentato di nascondere l’esistenza di un piccolo gruppo di gendarmi in attività fuori dalla base prefabbricata.

Interrogare – e non solo difendere

La questione degli interrogatori resta essenziale. Perché, a Sivens, durante quel fine settimana, il motivo principale della presenza della polizia sembra chiaro: evitare a ogni costo che l’afflusso dei manifestanti impedisca la ripresa dei lavori della diga il lunedì successivo. Il governo non ha nessuna intenzione di permettere la nascita di una seconda Notre-Dame-des-Landes, il sito dove da anni la popolazione si batte contro la costruzione di un aeroporto. I gendarmi devono difendere una “base” vuota, il prefabbricato del cantiere, che diventa un simbolo e un elemento strategico. Per questo, bisogna impedire le incursioni da ogni parte. Ma allora, perché dissimulare, sul posto, una squadra fantasma, e perché, in seguito, tentare di cancellarne le tracce nel dossier? C’è un obiettivo inconfessabile che le forze dell’ordine hanno cercato di nascondere?

La risposta ce l’hanno i gendarmi. Poco prima, in giornata, il comandante delle operazioni del Tarn riceveva un messaggio: “ci aspettano per gli interrogatori”, un messaggio inviato dal direttore generale della Gendarmeria nazionale, sotto gli ordini diretti del Ministro degli Interni. Ecco quale sembra essere il ruolo della squadra fantasma: interrogare i manifestanti, senza esporsi all’interno della base, ma approfittando dell’oscurità, fuori dal prefabbricato, fermando ogni manifestante isolato e/o preso di mira. Questa tattica di “discrezione nell’esecuzione di certe missioni”, con “azioni modellate su misura sui trascinatori” e “arresti” è preconizzata in un manuale di gendarmeria a cui Reporterre ha avuto accesso.

Questo modo di operare è confermato da una fonte vicina alla gendarmeria, interrogata dai giornalisti di Reporterre: “Se una squadra non è localizzata e un ufficiale della polizia giudiziaria è sul posto, vuol dire che hanno a priori l’intenzione di procedere a interrogatori e fermi preventivi”, dichiara, prima di precisare che molte persone ricercate, di cui alcune di nazionalità straniera, erano già state “reperite” a Sivens. Siamo ben lontani dalla semplice missione di protezione della “base” del cantiere, dichiarata dall’insieme dei militari.

Ma quello che non era stato previsto quella notte era la presenza di Rémi Fraisse a qualche metro dalla squadra fantasma. Rémi, che riceve una o più granate offensive, lanciate dall’interno e/o dall’esterno della base, e muore sul colpo.

Due ore dopo la sua morte, i gendarmi ricevono l’ordine di “ritirarsi”. All’improvviso, una cortina di gas lacrimogeno si abbatte sul luogo degli scontri. I furgoni spariscono nella notte. I manifestanti prendono possesso del prefabbricato, ancora ignari della tragedia.

Alle prime luci del mattino, la prefettura del Tarn annuncia in un comunicato laconico: “Questa notte, verso le 2 del mattino, il corpo di un uomo è stato scoperto dai gendarmi sul sito di Sivens”, omettendo il contesto degli scontri già a conoscenza delle autorità. Un tentativo maldestro di minimizzare la gravità dei fatti. La prima di una lunga serie di manovre per soffocare l’accaduto.

di Grégoire Souchay et Marine Vlahovic (Reporterre)

La traduzione dell’inchiesta in esclusiva su Q Code Magazine. Grazie a Valeria Nicoletti.

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