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La tortura ora è reato… ma il 41bis non è tortura?

Dopo il plauso, con diversi toni espresso per salutare l’ingresso, seppur tardivo, del reato di tortura nel nostro ordinamento, la dovuta attenzione alla tutela dei diritti di ogni singolo cittadino ed il doveroso sguardo d’insieme delle disposizioni tanto codificate, quanto normative in genere, impone a noi, operatori di diritto, di interrogarci, con laica serenità, in punto alla coesistenza nel nostro sistema del neonato reato di tortura con il mantenimento e la frequente applicazione del regime custodiate disciplinato dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario.

Regime (il 41 bis) al quale vengono indifferentemente sottoposti tanto i soggetti condannati in via definitiva, quanto chi soffre la carcerazione cautelare.

L’Unione delle Camere Penali da anni è attiva nella battaglia di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’esistenza di questo particolare regime, che previsto dal legislatore come strumento assolutamente eccezionale ed applicabile solo in relazione alla necessità di contenimento delle condotte criminali più efferate, esplicate nel contesto di associazioni di stampo mafioso, di fatto si è diffuso e si diffonde in modo spesso apodittico, e per ciò particolarmente inaccettabile. Proprio il regime al quale ex 41 bis il detenuto è sottoposto per decretazione ministeriale palesa una mistificazione della volontà di arginare le condotte lesive per la collettività con una concreta e reale tortura psicologica nei confronti del ristretto, che nulla ha a che vedere con le esigenze di tutela dei cittadini rispetto al crimine organizzato.

Ammesso per ipotesi che la censura della corrispondenza, la registrazione audio-video dei colloqui del ristretto con i familiari, e le forme di restrizione idonee ad arginare la possibilità di contatto tra soggetti appartenenti alla medesima organizzazione possano astrattamente apparire tutele adeguate rispetto alla potenziale pervasività delle condotte dei soggetti inseriti in consorterie di stampo mafioso, l’adduzione di limiti obiettivamente inspiegabili trasforma la cautela in una sorta di tortura. Non si comprende perché chi è sottoposto a regime di 41-bis abbia diritto di incontrare i propri familiari solo per un’ora al mese ed in giornate preordinate e rigidamente calendarizzate. Così, se per ipotesi il mercoledì 24 di un certo mese la moglie non può fare visita al marito, il diritto di visita per quel mese “salta”, né può essere recuperato nel primo mercoledì successivo disponibile, ma dovrà collocarsi nel mese successivo in un mercoledì contiguo alla data del 24, di modo che il ristretto subirà l’assenza di contatto con i familiari non più e non solo per un mese, ma addirittura per due.

Si tenga ancora conto che se chi è ristretto in regime di 41 bis ha figli in età pre adolescenziale può vivere il contatto fisico con il minore solo per dieci minuti al mese e nel contesto di quel colloquio di un’ora cui sopra si accennava, colloquio che con i parenti viene appunto gestito attraverso una parete trasparente a chiusura ermetica. Anche di fronte a questa osservazione, solo apparentemente banale, ci si chiede: è la limitazione del contatto fisico con un figlio ciò che tutela la collettività, o piuttosto in questa limitazione va letta un’afflizione aggiuntiva alla pena?

Ma quando ad afflizione si aggiunge afflizione, e soprattutto quando le stesse sono smaccatamente immotivate, la pena inverte il suo ruolo istituzionale in quello di tortura. Sull’argomento relativo all’afflittività sproporzionata della pena e sui danni che comporta si è recentemente diffuso anche il Pontefice.

A noi tecnicamente residua dire che quella inflitta con il regime di 41 bis O.P è tortura nel senso pieno ed etimologico del termine: è sottoposizione del soggetto ad un male psicologico e morale così intenso, e così in grado di incidere, probabilmente in modo indelebile, sulla sua personalità -circostanza questa per la quale l’Italia sul punto è stata censurata oltre che dalla datata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche dal recente report del 19 novembre 2013 relativo alla visita effettuata in Italia dal Comitato europeo per la prevenzione e la tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti – non certamente giustificato dal diritto dello Stato di decontestualizzare il soggetto dall’ambiente criminale, ma smaccatamente proiettato a sollecitare la sua collaborazione con la giustizia.

E se il principio di massima, con la censura che ne consegue, appare grave ed intollerabile nei confronti di ogni detenuto, maggiori e più inquietanti perplessità desta la prassi in via di consolidamento di collocazione in regime di 41 bis dei soggetti solo indagati, e per ciò colpiti da ordini di custodia cautelare.

Ci siamo chiesti quale sia il limite di liceità etica che consente di violentare il nostro sistema, il principio costituzionale di presunzione d’innocenza sino all’intervento delle sentenze definitive di condanna, piuttosto che il diritto al silenzio negli interrogatori, sino a consentirci di inserire nei corpi di detenzione del cosiddetto “carcere duro” i cautelati in attesa di giudizio. Forse l’idea è preconcetta, ma la saggezza popolare insegna che a pensare male si fa peccato ma non sempre si sbaglia: la decretazione ministeriale che in modo apodittico colloca gli indagati in regime di 41 bis O.P. è la legittimazione di una forma di tortura.

Un sistema civile, se da un lato non può che tollerare il fenomeno del cosiddetto pentitismo riconnettendolo al perseguimento dei fini di giustizia, dall’altro non può abbassarsi a torturare l’indagato con vessazioni morali del tipo di quelle accennate. L’inserimento e la debordante applicazione del regime di 41 bis agli indagati nei processi che seguono le regole del cosiddetto doppio binario (ovvero di deroghe procedurali applicate solo ad una determinata tipologia di processi) trasforma in una forma di tortura la custodia cautelare, getta una luce livida e sinistra sulla deroga alle garanzie costituzionali e trasforma il processo secondo il doppio binario in una sorta di binario 21, dal quale vorremmo che nessun treno fosse mai partito nel 1943 e dal quale pretendiamo oggi che nessun convoglio più si diriga per addentrarsi in un mondo in cui la valutazione preconcetta ed acritica condizionano l’esistenza di un uomo prima dell’intervento di una sentenza che, attraverso un giusto processo, abbia conclamato o escluso la sua responsabilità.

Antonietta Denicolò (Componente Giunta Unione Camere Penali)

da il Garantista

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