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Carcere, repressione e controllo sociale: cosa cambia

Nel secondo dopoguerra gli stati europei e nord americani misero in discussione il sistema sanzionatorio basato sul carcere. I motivi sostanzialmente due. Il primo fu il trauma per gli orrori dei campi di concentramento nazisti: le testimonianze e le analisi di chi quell’orrore aveva subito ne attribuivano l’origine a un inasprimento della concezione segregazionista, matrice di ogni sistema carcerario.
L’altro motivo fu l’analisi dell’andamento decrescente delle presenze nelle prigioni, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento.

L’utilizzo del carcere si attenuava poiché il sistema reclusorio aveva assolto il compito di disciplinare i “senza proprietà” ad accettare il destino di “proletari operosi”, forza lavoro sfruttata necessaria all’accumulazione di profitti e capitale; a ciò si univa la costatazione dell’inidoneità della politica penale nella soluzione del problema della criminalità. (1).

Sotto l’influsso delle critiche al sistema concentrazionario, si svilupparono proposte per abolire definitivamente il carcere: T. Mathiesen, N. Christie, L. Hulsman, Angela Davis, e altri, lanciarono la sfida dell’abolizionismo, un movimento che prese il nome da quello che aveva portato all’abolizione della schiavitù. Alcuni paesi, Norvegia, Finlandia, Svezia, Olanda, iniziarono un percorso per ridurre le reclusioni; il riduzionismo scelse le misure alternative alla detenzione: lavori socialmente utili, affidamento ai servizi sociali, ecc., presero il posto della reclusione in carcere ridotta a poche centinaia e solo per i reati più gravi. Alla fine degli anni Sessanta l’alternativa era secca: definitiva “morte” del carcere o sua “resurrezione”? Si avverò la seconda.

Negli ultimi tre, quattro decenni, la diffusione delle sostanze stupefacenti ad alto rischio, come l’eroina, e le campagne mediatiche volte a convincere le famiglie della necessità del carcere per spacciatori e consumatori, ha fatto da contorno all’offensiva liberista vasta e violenta che ha prodotto un incremento della repressione e della carcerazione. Negli Stati Uniti dalle 380.000 unità detenute del 1975 ai 2,5 milioni di oggi. In Europa le presenze in carcere sono raddoppiate. In Italia, nel 1989 c’erano in carcere 30.989 persone, nel 2011 è stato raggiunto il record di oltre 68.000, per scendere oggi a 52.636.

Un decremento dovuto ai provvedimenti svuota carceri fatti in fretta dopo l’ennesimo richiamo della Corte europea dei diritti dell’uomo. Provvedimenti che hanno focalizzato l’attenzione sulle strutture edilizie del carcere: metri quadrati per detenuto, cortili per l’aria, sale per la socialità, pur importanti, ma che non rappresentano l’essenza della devastazione prodotta dal carcere:
«La menomazione dello spazio genera senza dubbio ansia, angoscia, senso di soffocamento, che possono sfociare nell’asma, nella stanchezza cronica, nell’astenia; ma la menomazione temporale, … è più grave. La mente, immersa in una dimensione del tempo innaturale, reagisce in modo imprevedibile. C’è chi non esce più dalla cella, neppure durante l’aria. Chi guarda la televisione di notte e dorme di giorno. Chi rifiuta di pensare e chi pensa troppo. Senza considerare le lacerazioni che non sono visibili e che si manifesteranno più tardi, dopo la scarcerazione». (2)

«La ristrettezza degli spazi si combina con la finzione di tempo sovrabbondante che però non scorre, ristagna, è assente. C’è un intrigo ostile tra spazio esiguo e tempo dilatato e paludoso, così come tra il silenzio dell’isolamento e il fracasso delle porte in ferro, dei chiavistelli, degli scarponi, dei carrelli che segnano il ritmo della giornata reclusa. In carcere non c’è tempo perché non c’è attività, se per attività intendiamo la trasformazione intenzionale e finalizzata della forma e dello stato di un oggetto, di un ambiente, di se stessi. Nel carcere non c’è questo tempo, il tempo dei cambiamenti che avvengono. È tutto sempre uguale».(3)

Quell’intensificazione di repressione e carcere ha imposto un nuovo disciplinamento, quello per cui le masse salariate, proletarie e piccolo borghesi impoverite, siano esse lavoratrici o disoccupate, dovranno contenere i propri bisogni e desideri all’interno delle esigenze “ferree” del mercato. Sarà, d’ora in poi, il mercato capitalistico: banche, finanze, multinazionali, capitali, il regolatore indiscutibile della vita delle grandi masse. Un altro ammaestramento, dunque. Se il primo ha prodotto proletari operosi e rispettosi del comando e della proprietà, quest’ultimo ha prodotto masse popolari ossequiose degli andamenti del mercato e dei vincoli dell’accumulazione capitalista.

Oggi, compiuta l’ennesima mutazione antropologica, si può riprendere la via della riduzione della detenzione intramuraria: meno prigione e più controllo territoriale. Il mantenimento dell’ordine produttivo, il rapporto repressione/classi pericolose si collocherà, sempre più, nei territori periferici che hanno visto esplodere rivolte e che vedono nascere la ribellione in forme politico-sociali e nel “disordine sociale”. Il governo poliziesco della marginalità sociale e del conflitto sociale in via di espansione porterà il controllo sempre più nei territori! La repressione dovrà raggiungere e colpire le persone attive sul territorio per incapacitarle e annientarle come soggetti sociali potenzialmente organizzabili.

A questa scelta concorre anche l’alto costo della carcerazione: Obama durante una visita alla prigione El Reno Federal Correctional Institution ha detto: «basta pene e carceri ingiuste … riformare il sistema della giustizia penale, che ha affollato le prigioni americane come nessun altro Paese sviluppato al mondo… e molto costose, 80 miliardi l’anno». Il costo in Italia sfiora i 3 miliardi di euro l’anno.

Per assecondare questa tendenza sono aumentate per legge le possibilità di essere ammessi alle misure alternative anche dal processo, sospensione del procedimento e messa alla prova con prestazione di condotte riparatorie per reati puniti con la detenzione fino a 4 anni; così come l’ampliamento dei casi di affidamento ai servizi sociali; è stata inoltre ridotta la custodia cautelare in carcere a vantaggio di misure di controllo non detentive (Legge 16 aprile 2015, n. 47 Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali).

Meno carcere e più misure alternative alla detenzione consentirà alla repressone di praticare l’invalidazione e la neutralizzazione selettiva, ossia impedire a soggetti sociali di continuare a fare quello che facevano prima, neutralizzando loro e l’ambiente in cui sono inseriti. È qui che si giocherà la partita contro la repressione. Resterà in vigore la pratica deterrente-terrorizzante del 41bis e delle carcerazioni differenziate particolarmente dure.

In molti paesi nordeuropei questo nuovo corso è già in atto da tempo. Si sono aggiunte di recente Francia e Inghilterra e anche negli Usa si prepara un decisivo passaggio nel senso descritto. Tuttavia le parti in gioco e le variabili sono tante e difficilmente prevedibili, ad esempio, il consenso elettorale: esaltare il carcere oggi porta voti.

Salvatore Ricciardi da zeroviolenze

Note:
(1) G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, 1939; M. Horkheimer, T. W. Adorno, Da una teoria del delinquente (in: Dialettica dell’illuminismo) 1966; D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, 1977; M. Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese 1750-1850, 1982; M. Foucault, Sorvegliare e punire, 1975, che vi aggiunge la funzione reclusiva utile a circoscrivere, nell’ampio universo dell’«illegalismo», una fascia ristretta di soggetti per trasformarli, attraverso l’internamento, in «criminali».
(2) [E. Gallo, V. Ruggiero- Il carcere immateriale, 1989] (3) [S. Ricciardi – Cos’è il carcere, 2015]

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