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Roma, 20 aprile 1979: Muore Ciro Principessa accoltellato dai fascisti

ciro principessa

Ci sono vari compagni la sera del 19 aprile 1979 in via di Tor Pignattara, nella sezione del Partito Comunista Italiano intitolata a Nino Franchellucci, militante clandestino durante il fascismo, partigiano, nel dopoguerra impegnato nella lotta per la casa. Il periodo non è semplice. Da alcuni mesi a Roma si susseguono aggressioni e attentati fascisti. Ma l’area di Villa Certosa, intorno all’omonimo parco sulla Casilina, è terra di immigrati.

Una borgata rossa, feudo del PCI. La sede è frequentata da giovani impegnati nelle lotte sociali e politiche, nell’intervento su un territorio dove si cerca di trasformare il generico ribellismo dei «ragazzi del muretto» – che tirano avanti con piccoli furti e borseggi – in una più chiara coscienza di classe. Anche attraverso la cultura. La biblioteca popolare è nata per far circolare quel genere di sapere che spesso non si impara a scuola, mentre i racconti dei partigiani della zona trasmettono la memoria della Resistenza.  Quel giovedì 19 aprile nella sezione ferve il lavoro per preparare la Festa della Liberazione alla Certosa.

Uno dei presenti è Ciro Principessa, soprannominato il Nespola per i frutti di cui fa man bassa arrampicandosi sul muro di un convento. Ha ventitre anni, un passato pieno di traversie e una forte volontà di riscatto collettivo. Dopo un periodo in collegio (la madre avrà otto figli), a dodici anni Ciro smette la scuola. Per rimediare qualche soldo fa piccoli furti, che gli portano varie condanne. Nel 1974 la più pesante, per aver rubato salami, prosciutti, formaggi. Va in carcere per due anni, poi parte per il servizio militare. Quando torna per una licenza, gli viene contestato il famigerato art. 1, quello dei «delinquenti abituali», che impedisce tra l’altro di votare e guidare la macchina. Ciro sceglie allora di disertare e finisce nel carcere militare di Forte Boccea.

All’uscita abbandona la vita precedente per seguire i suoi amici nella militanza politica. Inizia a fare lavoretti saltuari. Muratore, cameriere, venditore porta a porta di prodotti per la casa con un amico. Hanno comprato una vecchia Fiat 1100 che usano anche per il tempo libero. Su una fiancata ci scrivono Gui e Tanassi sono innocenti, siamo noi i veri delinquenti. Uno slogan ironico che veniva urlato nei cortei per ricordare i due ministri dello scandalo Lockheed, la multinazionale americana, ancora oggi produttrice di armi, che aveva ottenuto una commessa miliardaria corrompendo i politici italiani.

Ciro ha i capelli lunghi e la frangetta, i pantaloni scampanati. Ama divertirsi, ballare, indossare un vistoso vestito bianco alla Tony Manero. Ma è sempre più determinato nell’impegno politico. Fa un percorso inverso a quello consueto. Prende prima la tessera del partito e poi va alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), con cui organizza doposcuola, cineforum, attività politica e una piccola biblioteca. Durante la settimana legge «l’Unità» nella bacheca della sezione e la domenica va con gli altri militanti a venderla nelle case della zona. Insieme ai suoi compagni nel 1978 occupa un ex mobilificio abbandonato a via di Porta Furba, dove organizzano corsi e attività culturali per il territorio. Una sorta di primo centro sociale romano, che oggi ospita un centro anziani. Nelle lacerazioni sorte nella sinistra dopo l’uccisione del sindacalista Guido Rossa da parte delle Brigate Rosse, Ciro prende una posizione netta, partecipando ai suoi funerali a Genova.  La sera di giovedì 19 aprile in molti stanno tornando in autobus dal lavoro. Su uno di questi arriva alla Certosa un giovane. Forse ascolta la conversazione di due militanti che stanno andando verso il PCI di Tor Pignattara e decide di seguirli. Forse non sa nemmeno cosa vuole fare, ma ha in tasca un coltellaccio da cucina. Sale i cinque gradini ed entra nella sezione, aperta a tutti. Si guarda intorno, chiede un libro, un compagno gli dice che per il prestito bisogna presentare un documento, lui sembra andarsene e i militanti proseguono nelle loro occupazioni. Invece lo sconosciuto rientra velocemente, afferra un volume e fugge. Ivano parte all’inseguimento. Ciro lo raggiunge. Urla: Attento Iva’, attento Iva’, c’ha ’r cortello! Poi si accascia a terra, raggiunto da due coltellate al torace e all’addome. Arriva un altro compagno, Claudio, i due vanno contro l’aggressore, che cade in terra. Claudio gli dà un calcio, poi si ferma impaurito dalla lama. Il fascista si rialza e fugge. Viene fermato dalla polizia in un bar, dove cerca di disfarsi del coltello che ha ripulito dal sangue.

Ciro sul momento non sembra grave. Ma in sala operatoria l’emorragia non si ferma. C’è un’arteria recisa. Spira all’alba del 20 aprile, dopo quasi dieci ore di agonia. Morto per difendere un libro. Lo stesso giorno i fascisti collocano un ordigno esplosivo in Campidoglio. Il provocatore si chiama Claudio Minetti, ventisette anni, soggetto psicologicamente fragile cresciuto fin da piccolo in un ambiente fanaticamente fascista, con una madre che riempie casa di svastiche, ritratti di Mussolini e Hitler, ed è convivente di Stefano Delle Chiaie, uscito dal MSI nel 1956 per dare vita insieme a Pino Rauti al movimento di estrema destra Ordine Nuovo, da cui si distacca nel 1962 per fondare Avanguardia Nazionale.

Claudio Minetti è iscritto ad Avanguardia Nazionale dal 1968 fino allo scioglimento. Nel 1976 aderisce a Europa Civiltà, un movimento politico della destra coinvolto nel golpe Borghese, e infine frequenta la sezione missina di via Acca Larentia. Davanti ai giudici rivendica la sua militanza nella destra.  Alla camera ardente allestita nella sezione di Tor Pignattara arriva persino il Segretario Generale del PCI Enrico Berlinguer. Martedì 24 aprile il corteo funebre parte dalla Certosa e va al cimitero del Verano, attraversando il quartiere proletario di San Lorenzo. Lungo la strada la gente partecipa dalle proprie case, appende bandiere rosse alle finestre, saluta a pugno chiuso, getta fiori sulla bara, abbassa le serrande dei negozi in segno di lutto. Nel muro a fianco alla sezione viene messa una lapide, in cui Ciro è definito Militante comunista ucciso da mano fascista.

Il 7 maggio inizia il processo per direttissima contro Claudio Minetti, accusato di omicidio volontario, e già noto per aggressioni squadristiche e per la detenzione di un coltello.  Gli avvocati della difesa non contestano l’accusa, ma chiedono una perizia psichiatrica per accertare l’incapacità di intendere e di volere dell’imputato, il cui fratello si è suicidato in carcere poco prima di effettuare una testimonianza in favore di Stefano Delle Chiaie. Il 12 giugno 1979 viene pronunciata la condanna per omicidio volontario a dieci anni (poi ridotti in appello) di manicomio giudiziario, in virtù degli squilibri psichiatrici e degli impulsi ossessivi dell’imputato.

L’ennesimo omicidio di un compagno fatto passare come atto individuale di un pazzo. (scheda a cura di Paola Staccioli)

 

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