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Violenza di Stato, la storia infinita

La vicenda delle banlieue di Parigi, dove un fermato viene pestato e sodomizzato con un manganello dalla polizia durante un intervento sul territorio, ci scaraventa nuovamente nel bel mezzo di un problema tanto irrisolto quanto costante e antico, cioè quello della “violenza di Stato”.

La polizia che pochi giorni fa a Bologna ha fatto irruzione in tenuta antisommossa in una biblioteca universitaria manganellando gli studenti e mettendo a soqquadro i locali, libri e arredi rovesciati nella buriana. Stando alle testimonianze pare che la biblioteca e i suoi frequentatori siano stati spettatori di incursioni da parte una ventina di persone, non di più, non è credibile che non possa essere messa in atto un’operazione di polizia giudiziaria che identifichi e colpisca con metodi legali i responsabili di eventuali soprusi a danni di studenti o cose; giustificare l’accaduto in virtù di uno stato di emergenza causato da “una ventina di persone”  – che sicuramente sono note – è un ossimoro.

Non è irrilevante ricordare i tanti casi italiani che vanno dalle violenze del G8, la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto, solo alcuni di una lunga serie, i casi più noti sono quelli di: Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso a suon di botte da poliziotti di pattuglia. Stefano Gugliotta, il venticinquenne che dopo essere stato percosso dalle forze dell’ ordine,  ha riportato ferite sulla testa, ematomi sulle gambe, lividi da manganelli sulla schiena e un dente rotto, oltre ovviamente uno stress psicologico.
Stefano Cucchi massacrato ma morto di presunta “epilessia” (recentemente riconosciuta la morte per responsabiità di chi l’aveva in custodia); Andrea Soldi 25 anni, morto a Torino durante un tentativo di Tso violento praticato dai vigili e medici mentre si trovava ai giardinetti inerme e indifeso; Franco Mastrogiovanni ucciso in ospedale per un Tso violentissimo che non gli diede scampo; Giuseppe Uva che morì per un pestaggio efferato da parte delle forze dell’ordine che ne causarono la morte, la cui tormentata e scandalosa vicenda giudiziaria è ancora in corso grazie alla sagacia della sorella Lucia Uva, che come  Ilaria  Cucchi non si è mai rassegnata e cerca giustizia anche difronte ad accuse di diffamazione; donne che con la loro tenacia rendono in qualche modo giustizia a tutti coloro che sono morti a causa della violenza di Stato.

L’elenco sarebbe lunghissimo, ma qui vogliamo concentrarci sull’oggetto del contendere, ovvero il rapporto causale tra sicurezza di Stato, e sicurezza della vita del cittadino qualora si trovi nelle mani dello Stato.
L’assunto più appropriato da cui partire, è che il “linguaggio” – portatore di significati – ha una dimensione specifica nel determinare la visione di questo complesso fenomeno.

Si pensi alle connotazioni che vengono date alle persone vittime di questi episodi; Cucchi era un tossico; Aldrovandi si agitava durante il fermo di polizia dal quale ne usciva morto per le percosse; Uva era un alcolizzato; il ragazzo delle banlieu si colloca come sottoproletariato o presunto malvivente; Mastrogiovanni era schizofrenico; Andrea Soldi non voleva sottoporsi a Tso; gli studenti diBologna (http://video.repubblica.it/edizione/bologna/bologna-scontri-all-universita-studenti-sgomberati-dalla-biblioteca-occupata/267363/267748)  rei di aver contestato i tornelli di ingresso e di averli smontati e via dicendo.

Un fatto “storico”: la struggente vicenda di Giorgiana  Masi uccisa a Roma il 12 maggio 1977 a soli 19 anni. Sembrano lontani gli anni ’70, ma fu proprio in quegli anni che si iniziò a parlare di forze dell’ordine al servizio del cittadino, di smilitarizzazione della P.S. In qualche modo pareva essersi avviato un nuovo percorso più democratico, per quanto fragile fosse.

Poi i fatti di Napoli 17 marzo 2001 prima del G8 a Genova, e a Genova stessa poco dopo, quando giovani manifestanti furono illecitamente arrestati, picchiati, vessati e torturati. Questi fatti hanno avviato il paese a una regressione repentina dello stato di diritto.

La modalità linguistica rituale è funzionale a creare il prefisso “non è uno di noi”, il che equivale a dire “se l’è cercata”. Quasi come se la persona cessasse di essere tale, e quindi portatrice di diritti nel momento in cui gli si imputa un “presunto reato” che ne modifica irrimediabilmente lo status di essere umano, degradandolo preventivamente a qualcosa di infinitamente estraneo ed inferiore. Perfino i congiunti vengono confinati al ruolo malefico qualora assurgano la pretesa della verità, ed è così che Ilaria Cucchi, Patrizia e Lino Aldrovandi, Lucia Uva e molti altri che conducono una battaglia di giustizia, vengono relegati nella sfera dei reietti o peggio dei diffamatori.
Del resto la delegittimazione della vittima è una pratica antica:

“No, non erano inumani. Però, sapete, era questa la cosa peggiore, e cioè proprio il sospetto che non fossero inumani. Si faceva strada a poco a poco. Quando gli individui urlavano e saltavano, e si contorcevano, e facevano smorfie orribili; ma quello che dava i brividi era il pensiero della loro umanità, un’umanità come la tua, il pensiero della tua remota parentela con quel tumulto selvaggio e appassionato.” Joseph Conrad – Cuore di tenebra.

Parole che ci ricordano impietosamente come la persona possa essere “deumanizzata” in nome di fini ritenuti superiori, che siano di sicurezza, la necessità di giustificare in qualche modo le efferatezze da parte di chi dovrebbe proteggere il cittadino. E’ attraverso processi di “esclusione morale” che si normalizza e si legittima la violenza.

E’ fondamentale tenere presente che una delle forme di “habeas corpus” è proprio l’immunità da torture e da pene corporali. E che questo non è un problema di carattere puramente teorico e appartenente a modelli classici come la tradizione settecentesca, del “garantismo penale”, ma si configura come un problema di grande attualità; in poche materie come questa è peculiare la stigmatizzazione penale che ha un esplicito valore preformativo del senso comune e della deontologia professionale delle forze di polizia. Ha il valore di rimuovere eventualmente la cattiva coscienza del legislatore, dei giudici, e non meno della pubblica opinione non disposti a riconoscerla, è invece necessario riconoscere l’orrore e sollecitarne il rifiuto come vergogna indegna di uno stato di diritto, di un paese che abbia la pretesa di definirsi civile e democratico che contempli la sacralità e la inviolabilità del corpo e della psiche di una persona privata della libertà personale, alla quale non dovrebbero mai venire a mancare queste garanzie, chiunque l’abbia in custodia.

Quando viene meno questa garanzia, si applicano casi di vera e propria tortura, figure di reato del tutto sproporzionate alla loro gravità, come il generico “abuso di autorità” previsto dall’art. 608 del codice penale, o le comuni percosse e lesioni personali che sono punibili se lievi, a querela di parte ,in contraddizione con l’indisponibilità dei diritti e la natura pubblica degli interessi lesi; in questi casi siamo difronte ad una inaccettabile lacuna, non solo su un piano teorico, quale violazione della garanzia positiva dell’obbligo di punire come delitto la tortura, in Italia, è contemplata dall’ art. 13 comma 4 della Costituzione, in base al quale si afferma che “va punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà.”

Alla luce di tale uso della forza nei confronti di soggetti sottoposti a controlli di polizia, come nel caso della banlieu parigina, o quello degli studenti della biblioteca di Bologna, non è difficile immaginare perché vi sia una resistenza da parte dello Stato ad approvare la legge sul reato di tortura, mentre si procede ad approvare con celerità un Daspo per le aree urbane (come per gli stadi) nel nome della sicurezza: “provvedimento per prevenire il pericolo di turbativa per l’ordine e la sicurezza e assicurare il concorso della forza pubblica all’esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria” inoltre il ministro Minniti sostiene che la sicurezza urbana va intesa come grande bene pubblico e che il decreto prevede il rafforzamento di potere di ordinanza dei sindaci.

E’ evidente che la “sicurezza del territorio” non viene considerata in alcun modo un qualcosa che va reiterato attraverso politiche pubbliche su lavoro, sociale, diritto allo studio e tutte quelle forme che la modernità dovrebbe contemplare in una società evoluta; bensì si procede ormai da anni nel senso di marcia opposto, ovvero si smantellano le tutele sociali, si crea disagio e devianza, per poi intervenire a ripristinare l’ordine con la repressione; considerato il livello a cui la crisi economica ha condotto il paese, è chiaro che la politica si sta “attrezzando” attraverso “l’uso legittimo della forza”, non già come lo si potrebbe accettare nel senso di cui Weber intendeva attraverso il “potere legale”, ma con l’uso distorto che se ne fa politicamente per mettere a tacere il dissenso e il malessere sociale causato dalla cattiva politica, dimenticando che – sempre in senso weberiano – il potere per essere legittimo deve necessariamente passare dal “riconoscimento” dei sottoposti ad esso. I casi di scuola sono sempre eccezionali, contrariamente ai casi pratici, dove una volta legittimata eccezionalmente la violenza, essa rischia di diventare un pratica ordinaria.

Loredana Biffo

da CaratteriLiberi

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