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Ultimo ricorso contro l’estradizione di Assange. E l’Onu inizia a preoccuparsi

I legali di Julian Assange tentano con l’Alto Tribunale del Regno unito per impedire che sia consegnato agli Stati Uniti. Michelle Bachelet: a rischio la libertà di stampa.

di Luca Tancredi Barone

Sono ormai agli sgoccioli le possibilità di salvare Julian Assange, fondatore del portale Wikileaks, dall’estradizione negli Stati uniti, dove l’aspetta una lunga lista di accuse che potrebbero portare il governo Usa a condannarlo a 175 anni di reclusione.

La settimana scorsa il caso è arrivato all’Alta commissaria dell’Onu per i diritti umani, l’ex presidente cilena Michelle Bachelet; il caso, ha detto alla compagna di Assange, Stella Moris, e ai suoi avvocati spagnoli, Baltasar Garzón e Aitor Martínez, è motivo di preoccupazione per l’impatto sulla libertà di stampa e il giornalismo di inchiesta. Venerdì scorso i suoi legali hanno consegnato un ultimo appello presso l’Alto Tribunale del Regno unito, ultimo capitolo di una saga giudiziaria che va avanti dal 2010.

Quell’anno la Svezia chiese l’estradizione dell’australiano per stupro, molestie sessuali e coercizione. L’accusa mai provata era di aver rotto il preservativo durante la relazione sessuale con due donne, una circostanza che nel codice penale svedese rientra nel ventaglio dei reati tipificati come stupro. L’indagine negli anni è stata aperta e chiusa molte volte, l’ultima l’anno scorso, senza arrivare a nulla.

La richiesta svedese di estradizione per interrogarlo sul proprio territorio (non legalmente necessaria) ha dato il la a un labirinto giudiziario. Assange temeva, e il tempo gli ha dato la ragione, che segretamente gli Stati uniti avessero allestito un’indagine per la quale avrebbero chiesto la sua estradizione una volta in Svezia.

Quando la Gran Bretagna ha respinto il suo ultimo ricorso contro l’estradizione (un tipo di estradizione che oggi la Gran Bretagna non concede più: bisogna prima essere condannati), Assange ha infranto le condizioni di libertà vigilata e si è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, allora guidato dal presidente Rafael Correa, che gli ha concesso asilo. È rimasto rinchiuso in quei pochi metri quadrati, senza accesso neppure alla luce naturale.

Condizioni così estreme che nel 2018 il Working Group sulle detenzioni arbitrarie dell’Onu aveva criticato il Regno unito: non permetteva l’uscita di Assange dopo più di sei anni di confinamento nonostante l’inchiesta svedese in quel momento fosse chiusa. La rivista scientifica Lancet nel 2020 ha parlato di “stato di salute precario dovuto all’effetto di tortura psicologica prolungata sia nell’ambasciata ecuadoriana che nella prigione di Belmarsh”, centro di massima sicurezza dove è attualmente rinchiuso.

Il nuovo presidente ecuadoriano, Lenín Moreno, che lo vede con assai meno simpatia, aveva intanto iniziato a mettergli paletti, tagliandogli l’accesso a internet e limitando fortemente le visite, per non parlare dello scandalo, su cui gli inquirenti spagnoli stanno ancora indagando, dell’impresa privata spagnola che gestiva la sicurezza dell’ambasciata, che spiava Assange e i suoi visitatori, e passava informazioni direttamente alla Cia.

Nel 2019 l’espulsione violentissima dall’ambasciata: da allora il ciberattivista è rinchiuso a Belmarsh quasi in isolamento. La pena che gli toccava scontare per aver infranto la libertà vigilata era di qualche settimana di carcere: ma è ancora lì, mentre cerca di non essere estradato negli Usa che nel frattempo hanno reso pubblici i 17 capi di imputazione per cui gli vogliono mettere le mani addosso. Il fatto è che Assange, con la sua Wikileaks ha messo in luce gli abusi del potere. Con il famosissimo video Collateral murder, in cui soldati americani sparavano a civili inermi in Afghanistan, con i diari di guerra in Afghanistan, con quelli in Iraq, e con molti altri documenti (come i cablo delle cancellerie di tutto il mondo).

A pagare per i crimini di guerra denunciati da Wikileaks sono solo coloro che hanno filtrato le informazioni, l’ex soldatessa Chelsea Manning, e lo stesso Assange, che le ha rese pubbliche (in collaborazione con testate giornalistiche, nessuna delle quali è stata mai accusata).

Ma tant’è: a gennaio del 2021 la magistrata inglese Vanessa Baraitser non riconosce che le accuse americane siano politiche (per la legge inglese Assange non sarebbe estradabile) ma blocca l’estradizione perché considera che sia in pericolo di vita; dopo il ricorso degli Stati uniti (che hanno vinto a dicembre assicurando che avrebbe ricevuto un processo e un trattamento equo), la ministra degli interni inglese Priti Patel a giugno ha dato il suo permesso per l’estradizione.

Come ha scritto Ken Loach nell’introduzione al bel libro di Stefania Maurizi “Il Potere segreto” (Chiarelettere, 2021), questa è la storia del “prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un’apparenza di democrazia”.

da il manifesto

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