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Ulteriori conferme dei maltrattamenti subiti dalla prigioniera politica curda Garibe Gezer

L’anno scorso perdeva la vita in circostanze poco chiare la prigioniera politica curda Garibe Gezer, purtroppo già nota per le angherie subite in carcere. A distanza di un anno emergono nuove prove sulle violenze a cui era stata sottoposta.

di Gianni Sartori

Oramai la lista delle vittime curde della repressione in Turchia si va talmente allungando che sinceramente fatico a tenerne il conto. Così come diventa difficile ricordarne tutti i volti, i nomi…

Ma di Garibe Gezer non potrei dimenticarmi.

Me ne ero occupato ancora nell’ottobre 2021 dopo la denuncia da parte dei suoi avvocati di umiliazioni, maltrattamenti, sevizie…nei suoi confronti.

Garibe Gezer sosteneva di essere stata torturata e violentata dai suoi carcerieri in una cella imbottita della prigione di Kandira (Kocaeli). Inoltre, dichiaravano i suoi difensori, le sue ferite (conseguenza oltre che dello stupro e delle torture subiti anche di un tentativo di suicidio) non sarebbero state curate adeguatamente. Nonostante la giovane curda sanguinasse vistosamente dal capo.

Arrestata nel 2016 a Mardin, Gezer aveva già subito ogni sorta di angheria e spesso confinata in isolamento. Rinchiusa nella prigione di tipo F a Kandira (dove era giunta il 15 marzo 2021 dopo un periodo di isolamento a Kayseri) aveva chiesto di essere mandata in una cella comune da tre persone. Richiesta respinta, ovviamente. In compenso – per punizione –il 21 marzo veniva rinchiusa in una cella imbottita subendo maltrattamenti sia da parte dei carcerieri maschi, sia dalle donne che l’avevano trascinata per terra tenendola bloccata per le mani e sfilandole gli abiti (come sembrerebbero confermare le immagini ora diffuse dall’agenzia curda  Jinnews).

Per protesta, non potendo ricorrere ad altro che all’autolesionismo, aveva battuto ripetutamente il capo contro la porta della cella. Il 24 marzo veniva nuovamente aggredita dai guardiani, picchiata con gli scarponi e rinchiusa in una cella di tipo particolare, classificata come cella di tortura da alcune Ong (anche se ufficialmente non ne esistono). In quanto interamente ricoperta di polipropilene, un isolante perfetto, da deprivazione totale. Qui sarebbe stata torturata e violentata.

Quando poi aveva cercato di togliere il rivestimento dalle pareti, era stata nuovamente picchiata al punto da provocarne lo svenimento. Ammanettata con le mani dietro la schiena, era stata lasciata in cella in tali condizioni.

Successivamente, come reazione allo stupro subito, la prigioniera aveva tentato il suicidio impiccandosi. Ma la stoffa utilizzata si era spezzata ed era caduta battendo violentemente il capo. Nonostante una vistosa emorragia, veniva lasciata per diverse ora stesa a terra. Quanto alle sue lettere agli avvocati e alla sorella in cui denunciava l’accaduto, alcune non erano state nemmeno spedite, altre pesantemente censurate.

Sempre relegata in una cella singola (nonostante il rischio di un nuovo tentativo di suicidio e nonostante versasse in tali condizioni, quelle di una persona che aveva subito molteplici violenze) il 7 giugno la prigioniera aveva appiccato il fuoco alla cella.

Una protesta, la sua, anche contro la costrizione di dover espletare i propri bisogni sotto lo sguardo di una una camera di sorveglianza. Inoltre i carcerieri immettevano continuamente aria fredda nella cella attraverso il sistema di ventilazione.

Nella denuncia la cella viene descritta come “uno spazio da due a tre metri di lunghezza, interamente imbottita e sotto video-sorveglianza 24 ore al giorno, con escrementi dovunque e con un insopportabile odore di urina ed escrementi (inevitabile ricordare la situazione dei Blocchi H in Irlanda del Nord negli anni settanta e ottanta nda). Nella cella come toilette c’era solo un buco visibile dalla camera di sorveglianza”.

Il 20 settembre 2021 i suoi avvocati (Eren Keskin, Jiyan Tosun e Jiyan Kaya) avevano sporto denuncia appellandosi “alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDH) e alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.

Per gli avvocati i carcerieri andavano incriminati in base agli articoli 86, 94 4 102 del codice penale turco, mentre i medici incorrerebbero nell’articolo 257.

Denunciato anche il direttore del carcere per “negligenza”.

Ma poi, come sappiamo, Garibe Gezer era morta in maniera quantomeno sospetta il 9 dicembre 2021. Ufficialmente per “suicidio”. Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (TUHAY DER) e dell’HDP, si erano riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il corpo della giovane vittima. Avevano poi portato a spalla la bara scandendo slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo. Nella tarda serata del 10 dicembre 2021veniva sepolta a Kerbora, la città dove era nata 28 anni prima.

La versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non aveva convinto Eren Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo (IHD) si chiedeva come la detenuta avesse potuto suicidarsi visto che si trovava in isolamento  e  sotto lo sguardo perenne delle telecamere.

Ancora nell’ottobre 2021, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento – il 15 marzo 2021 – dalla prigione di Kayseri in quella di Kandira (dove poi ha perso la vita). Il 24 maggio 2021, secondo HDP “agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella sua cella per picchiarla (…). Mentre le guardiane le tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena. I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti maschi”.

Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore su 24”.E qui avrebbe subito, stando all’intervento di HDP “violenze sessuali da parte dei carcerieri”.

A causa delle violenze subite, sempre secondo il rapporto di HDP “la prigioniera aveva cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata. Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state censurate, altre mai spedite”.

Nonostante le sue proteste e le denunce degli abusi subiti in carcere fossero note da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata.

Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere all’autopsia.

Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre.

La sua famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione.

Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8 ottobre 2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis. L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate (quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti.

Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati.

Questi i precedenti a cui si va ad aggiungere un ulteriore tassello.

In questi giorni infatti l’agenzia femminista Jinnews ha potuto entrare in possesso di immagini che forniscono ulteriori conferme a quanto dichiarato dagli avvocati.

Inizialmente tali prove erano state secretate dal procuratore generale e invano i difensori della giovane curda avevano fatto richiesta per poterle visionare. Così come era rimasto senza risposta il loro ricorso alla Corte costituzionale turca (AYM) per denunciare la violazione degli articoli 17, 40, 36 e 141 della Costituzione e degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDH).

Quello che Gezer aveva subito in prigione (e che l’agenzia curda Jinnews non esita a definire “torture”) viene in parte ora svelato dalle drammatiche immagini.

Gli avvocati Eren Keskin, Jiyan Kaya, Jiyan Tosun e Elif Taşdöğen denunciano il fatto che l’ufficio del procuratore generale non ritenga di dover procedere a causa della “mancanza di prove”. Prove che invece per i difensori di Gezer sarebbero evidenti.

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