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Torture sui detenuti di Trapani, arrestati undici poliziotti penitenziari

11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi

Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.

L’indagine condotta dal nucleo investigativo regionale di Palermo, coordinato dal nucleo investigativo centrale, sono scattate dopo alcune denunce effettuate dai detenuti del penitenziario trapanese che avrebbero subito maltrattamenti in luoghi privi di telecamere, che una volta installate avrebbero registrato violenze reiterate da parte di agenti nei confronti di detenuti.

«Un modus operandi diffuso», affermano gli inquirenti, consistente «in violenze fisiche e atti vessatori nei confronti di alcuni detenuti», condotte «peraltro reiterate nel corso del tempo e messe in atto in maniera deliberata da un gruppo di agenti penitenziari in servizio presso la casa circondariale di Trapani».

Tutto parte nel 2021, con le denunce di alcuni detenuti: raccontavano di maltrattamenti, minacce e offese continue da parte di alcuni agenti. All’inizio la loro versione, come spesso capita in questi casi, non è stata ritenuta credibile. Si trattava di persone con diversi disturbi, tra loro anche stranieri. Qualcosa cambia quando uno di loro ha fornito una pista agli inquirenti: «Ci portano in una zona del carcere dove non ci sono telecamere. È lì che avvengono le cose brutte». Colleghi che indagavano su altri colleghi – in questa vicenda, dove, purtroppo, non vince nessuno – sono riusciti in gran segreto a piazzare le telecamere nei posti indicati: corridoi lontani da sguardi indiscreti, antibagni, zone isolate. Gli si è presentato davanti un film disgustoso: scene di violenza, schiaffi, colpi, gavettoni di urina. Uomini spogliati e derisi. Uomini malmenati. E un sistema che copriva tutto. Che, alla bisogna, si voltava dall’altra parte, con finte relazioni di servizio, o accusando ingiustamente le vittime di essere a loro volta aggressori.

In tutto gli indagati sono 46, destinatari anche di un decreto di perquisizione alla ricerca di materiale utile per le indagini presso le loro abitazioni, gli armadietti del carcere, i veicoli di proprietà.

Nell’istituto di pena il reparto blu, quello adibito all’isolamento diurno e notturno, era stato trasformato nel luogo degli orrori e, in particolare, una cella ribattezzata “liscia”. Lì avvenivano le violenze visto che non c’erano inizialmente le telecamere poi disposte per verificare i raccontati dei detenuti. Uno dei reclusi, V.C., ha dovuto subire ogni tipo di prevaricazione in un reparto dove era stato instaurato un vero e proprio «clima di terrore», come lo definisce il giudice Giancarlo Caruso.  Nella cella 5 gli agenti Nicolò Rondello e Francesco Sugamiele lo colpivano e percuotevano con schiaffi, altri due agenti assistevano senza intervenire. In un’altra occasione, altri due poliziotti penitenziari, Vito Cisaro e Leonardo Crapanzano, trascinavano il detenuto in slip lungo il corridoio bagnato prima di spingerlo in cella con un calcio. Altri agenti ancora lo picchiavano muniti di guanti in più occasioni, il recluso era nelle mani di uno stato dal volto di aguzzino. Al detenuto straniero M.G., Antonio Ficara, Giuseppe Gervasi, Andrea Pisciotta, e altri agenti, riservavano questo trattamento: lo denudavano, lo obbligavano a percorrere il corridoio nudo, lo irridevano per le dimensioni dei genitali prima di chiuderlo in cella. Più che un carcere di uno stato democratico sembra Arancia meccanica. A.C. è un altro detenuto, l’ennesima vittima sacrificale di bulli vestiti da agenti, destinatario di percosse e secchiate di acqua e urina.

Il procuratore scrive che a Trapani, nel periodo sotto indagine, è emerso un “totale disprezzo della figura del detenuto”. Nei confronti dei reclusi è stato usato un linguaggio offensivo, come “coso inutile”, “sei un cane”, “ammazzati”, con anche la matrice razzista. In un’intercettazione un gruppo di agenti parla di come picchiare i detenuti senza lasciare segni.

Qualcuno suggerisce di coprire il colpo con un lenzuolo, che poi è quello che sarebbe stato fatto in ospedale a danno di un detenuto ricoverato, secondo quanto ricostruito nell’indagine. Riferendosi a un altro detenuto un agente sottolinea che il metodo del lenzuolo non serve perché “tanto è nero e non si vede un cazzo”.

Gli abusi documentati riguardano una ventina di vittime, le cui testimonianze sono state raccolte e riscontrate dalle autorità. Le indagini non si fermano, ma la Procura lancia un appello affinché la politica intervenga con decisione. «Noi siamo tecnici e agiamo sulla base delle indagini – ha concluso Paci – ma questa è una situazione profondamente disdicevole che non possiamo più ignorare». La situazione del reparto blu era stata denunciata da Nessuno tocchi Caino che aveva chiesto la chiusura del reparto, poi chiuso nell’agosto 2023 per ragioni sanitarie quando ormai tutto era compiuto.

L’Associazione Yairaiha ETS denuncia con fermezza gli inaccettabili abusi e le violenze sistematiche che continuano a verificarsi all’interno della Casa Circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani. Le recenti indagini della Procura della Repubblica hanno svelato una realtà agghiacciante: venticinque agenti della Polizia Penitenziaria sono accusati di tortura, abuso di autorità e calunnia, segno di un sistema carcerario marcio e disumano.

L’arresto di undici poliziotti e la sospensione di quattordici altri non possono mascherare la verità: il sistema penitenziario è un luogo di oppressione, dove gli abusi avvengono sistematicamente, soprattutto in luoghi privi di sorveglianza e lontano dagli occhi del pubblico. Le testimonianze di detenuti che subiscono maltrattamenti in aree senza telecamere rivelano un modus operandi inaccettabile che garantisce l’impunità a chi esercita violenza forte della divisa che indossa. Questo non è un problema isolato, ma il sistema che alimenta e legittima la barbarie.

In un contesto in cui il governo Meloni sembra intenzionato a mantenere in vigore una cultura dell’impunità attraverso la paventata abolizione del reato di tortura. La nostra società è di fronte a un bivio: mantenere il reato di tortura tentando di arginare la violenza gratuita che viene esercitata da uomini e donne in divisa e non permettere che simili crimini vengano tollerati, oppure abolirlo, lasciando così le mani libere a chiunque indossi una divisa, specialmente all’ interno delle istituzioni totali. Non possiamo permettere che le istituzioni continuino a perpetuare questa vergogna!

Yairaiha ETS sostiene con forza che è necessario un cambiamento radicale. È tempo di abolire il sistema carcerario oppressivo e inumano, che non solo ignora i diritti dei detenuti, ma promuove anche una cultura di violenza e abusi. Chiediamo misure concrete per garantire la sicurezza e la dignità di ogni individuo, attraverso un monitoraggio costante e l’installazione di sistemi di sorveglianza adeguati. È fondamentale che le istituzioni collaborino con le organizzazioni della società civile per promuovere una cultura di rispetto dei diritti umani e di giustizia.

L’Associazione Yairaiha ETS è pronta a lottare al fianco di tutti coloro che si oppongono a questo regime carcerario ingiusto e violento.

L’avvocato Vito Daniele Cimiotta, rappresentante un procedimento dell’associazione Yairaiha ETS, nel procedimento relativo al brutale pestaggio nel carcere di Reggio Emilia, ha espresso il proprio parere anche sulle violenze avvenute nel carcere di Trapani. “Considerata la vicinanza territoriale e l’esperienza maturata in procedimenti di questo tipo, seguiremo attentamente la situazione e valuteremo, al momento opportuno, la costituzione come parte civile nel processo”, ha dichiarato. “Quanto accaduto a Trapani rappresenta l’ennesima, tragica conferma del declino inesorabile del sistema carcerario italiano, ormai giunto al completo collasso. Un sistema che ha perso ogni ragione d’essere e che trascina con sé degrado, abusi e violenze di ogni genere. Tuttavia, i problemi strutturali e il malfunzionamento del sistema non possono, in nessun caso, giustificare un tale stato di cose. La frustrazione degli operatori penitenziari non può mai, e non deve mai, trasformarsi in una giustificazione per atti di violenza. Una violenza, fisica e psicologica, che si abbatte sui detenuti, vittime predestinate di un sistema irrimediabilmente compromesso. Nessuno dovrebbe cercare di compensare le carenze strutturali e di organico con brutalità gratuite: sputi, manganellate e la sistematica violazione dei più fondamentali diritti umani sono inaccettabili e indegni di uno Stato civile. Molti oggi affermeranno che “abbiamo perso tutti”. Non è così. Ha perso chi tenta di giustificare le proprie azioni come inevitabili conseguenze di circostanze esterne che nulla hanno a che vedere con il rispetto dell’umanità. Ha perso chi continua a vedere nei detenuti dei bersagli su cui sfogare frustrazione e rabbia per un sistema che non funziona. Ha perso lo Stato, incapace di garantire legalità e dignità all’interno dei propri istituti di detenzione. Non hanno perso, invece, coloro che hanno subito gli atti vergognosi descritti negli atti processuali: loro sono le vittime di un sistema che ha fallito. Se il sistema carcerario è malato, lo è ancora di più chi lo governa, perpetuando un ciclo di violenza e disumanità che umilia ogni principio di civiltà”.

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