Per cinque anni e oltre la Fiat Mirafiori è stata la prima linea del conflitto sociale in occidente, il campo di battaglia nel quale si combatteva uno scontro la cui posta in gioco era diventata altissima: l’intera organizzazione del lavoro, la forma e la sostanza del comando, il potere reale esercitato nella mostruosa città-fabbrica. I giovani operai che nella primavera del 1969 lacerarono all’improvviso la pace sociale nella più grande fabbrica d’Italia non li aveva davvero sentiti arrivare nessuno. La direzione Fiat aveva interiorizzato la vittoria schiacciante del quindicennio precedente almeno tanto quanto gli operai avevano a lungo interiorizzato la sconfitta. Nel 1946 su 16mila operai 7mila aderivano al Pci: nel ’68, di comunisti ne erano rimasti 218 su un organico lievitato sino a quasi 50mila lavoratori. Dopo la disastrosa sconfitta del 1955 la Fiom si era ridotta nel ’68 a 556 iscritti e la classe operaia Fiat per definizione non scioperava dalla metà degli anni ’50.

TUTTO CAMBIÒ nel giro di poche settimane e il conflitto sarebbe proseguito senza soluzione di continuità per anni, fino a toccare il massimo livello di antagonismo e di contropotere operaio con l’occupazione di Mirafiori, il 29 marzo 1973. Dopo mesi di braccio di ferro con l’azienda gli operai, con il volto coperto da fazzoletti rossi per non esporsi al licenziamento, bloccarono i cancelli, occuparono la fabbrica, strapparono quella che Chicco Galmozzi definisce «l’ultima grande vittoria operaia. Conquistata con la forza». Galmozzi, allora operaio e militante di Lotta continua, ricostruisce quella vertenza nel suo Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori (DeriveApprodi, pp. 128, euro 14). Non si limita a raccontare quel picco. Ricostruisce e analizza, in sintesi ma senza mai perdere in profondità, l’intera parabola degli anni 1968-73: la grande offensiva operaia.
L’interpretazione comune spiega l’inattesa insorgenza operaia con la centralità assunta dall’operaio dequalificato rispetto alle fasce professionalizzate che costituivano storicamente la base della Cgil. Per Galmozzi l’analisi è giusta ma non esaustiva: altrettanto fondamentale è l’irruzione dei giovani operai immigrati di seconda generazione, quelli che, a differenza dei genitori, vivevano il lavoro in Fiat non più come un traguardo ma come un inferno quotidiano.

RAGAZZI CHE NON AVEVANO «interiorizzato» la sconfitta degli anni ’50 e avevano un tasso di scolarizzazione, dunque anche di attese, molto più alto della generazione precedente. L’esercito di meridionali portava inoltre l’esperienza personale e storica delle lotte contadine, molto diverse da quelle «ordinate» a cui era abituata la tradizionale base operaia sindacalizzata, composta essenzialmente da lavoratori torinesi ad alta qualificazione professionale.
La tensione era in realtà latente già da anni, ma nessuno se ne era davvero accorto. Quando esplose, prese di mira prima di tutto il sistema disciplinare, militarizzato e gerarchico, che costituiva l’essenza del modello di comando nella Fiat di Valletta. Montò poi per anni, imponendo una sorta di contropotere che opponeva al sistema disciplinare l’uso aperto e spesso minaccioso della forza. L’autore segnala però che la disponibilità operaia all’uso della forza, dai picchetti alla pratica quotidiana dei cortei interni che spazzavano i reparti, non era dettata da orizzonti politico ideologici di lungo periodo. Per la maggioranza degli operai dipendeva dalla necessità di conquistare l’obiettivo di turno e di fronteggiare i tentativi di repressione e ripristino del sistema disciplinare. Era contropotere praticato, non teorizzato.

DA SUBITO e sempre più sino alla lunghissima vertenza per il rinnovo contrattuale del 1972-73, che viene minuziosamente ricostruita con una cronologia dettagliata nella lunga appendice al libro, gli operai misero in campo rivendicazioni e obiettivi che minavano strutturalmente non solo l’organizzazione del lavoro ma l’essenza stessa del comando capitalista in fabbrica: la sua possibilità di sopravvivere.
Per Galmozzi l’elemento da subito più qualificante fu, con il rifiuto secco della gerarchia, la richiesta di egualitarismo. Scardinava un modello studiato apposta per dividere e assoggettare. A partire da lì arrivò a sfidare e far vacillare l’intera architettura del sistema di fabbrica.
La conflittualità permanente proseguì anche dopo il picco del ’73, sino alla sconfitta operaia del 1980. Però un simile livello di contrapposizione, immediata e prospettica, di un potere a un altro non fu mai più raggiunto. Sin dall’autunno la Fiat avviò un gigantesco processo di ristrutturazione e ridislocazione che mirava proprio a disarticolare e battere l’organizzazione operaia. Ma per piegare il contropotere conquistato nel ciclo 1968-73 le ci vollero altri 7 anni. (Andrea Colombo da il manifesto)