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Teramo: i detenuti e la notte del terremoto “tremava tutto, noi come topi in trappola”

Reportage dal carcere del cratere: “Quella notte del sisma chiusi in una cella”.

Se sei in carcere dove scappi? Come ti salvi se la scossa, di magnitudo 6.5, fa ballare muri e pavimenti e la porta blindata è chiusa? “Vivere l’esperienza del terremoto è un qualcosa di terrificante. Ma per chi, come noi, è in carcere è quasi agghiacciante”, scrive un detenuto di Castrogno.

“Si ha un senso di impotenza. Il non poter scappare da nessuna parte, a causa dei cancelli chiusi, mi ha fatto capire cosa si intende quando si dice “fare la morte del topo”. Il mio unico pensiero era rivolto a chi è fuori, fortuna, che lo stesso giorno ho fatto colloquio con i miei famigliari. Speriamo sia finito perché non si può vivere questa angoscia perenne”.
Lettera choc. Davide Rosci sta scontando nel carcere di Teramo la sua pena. Con poche righe ci porta nel carcere del cratere. Che cosa è accaduto quel maledetto 24 agosto in quelle stanze dove, tra chi è dentro e il resto del mondo, ci sono porte blindate che tolgono ogni speranza di sopravvivenza? La scossa, che ha raso al suolo Amatrice e gli altri borghi, ha ferito anche l’Abruzzo, ha messo in ginocchio il Teramano. E poi il 30 ottobre, anche Teramo si è risvegliata nel cratere e nel dramma. Quanto ci vuole per una guardia per spalancare il blindo, e aprire tutte le celle?

Buon viaggio. “Con questi pensieri sono entrata nel carcere di Teramo. C’ero già stata, conosco gli spazi, i lunghi corridoi, i quattro piani, le scale strette, la pesantezza dei blindi e i cancelli che chiudono i padiglioni”, dice Maria Amato, deputato vastese del Partito democratico. Il suo racconto ci aiuta a capire. Diventa una voce di dentro, tra quei muri e quelle sbarre che resistono nonostante tutto. Siamo nel cratere sismico dove la vita di trecento detenuti e duecento agenti e personale sanitario è legata a una questione di secondi. Il tempo è un fattore determinante. La parlamentare entra nel Castrogno alle 10,30 di lunedì.

Porte spalancate. “Incontro il direttore del carcere, Stefano Liberatore”, racconta Maria Amato, “ci siamo conosciuti nel percorso per la realizzazione dell’area a misura di donna e bambino, fatta con la collaborazione di associazioni di volontariato, con arredi colorati e murales che raccontano La gabbianella e il gatto. Ci tiene all’umanizzazione e alla centralità della persona. Mi raccontano la procedura di evacuazione messa in atto per il terremoto: vengono aperti i blindi e, in successione, le stanze per raggiungere il passeggio. Passato il pericolo i detenuti vengono fatti risalire nella loro sezione”. Ma la prima scossa ha preso tutti di sorpresa e la paura è corsa di stanza in stanza. Un mazzo di chiavi e il sangue freddo degli agenti separano la vita dalla morte a Castrogno.

Paura al piano. Dal 24 agosto le stanze del carcere di Teramo restano generalmente aperte, dal 30 sono sempre aperte, ventiquattr’ore su ventiquattro. Maria Amato continua: “Mi accompagnano ai padiglioni dei piani più alti, prima il quarto: si è ballato al quarto piano”. Che cosa è accaduto alle 7,40 del 30 ottobre nel carcere del cratere? Il primo a parlare è un giovane rom: “Ho avuto paura, stavo col carrello del vitto, facevo lo spiritoso: “vitto gratis, per tutti!”. All’improvviso mi sono trovato da un’altra parte. Signò, non ci ho capito niente. Stavolta le porte stavano aperte. Ho guardato alla finestra e ho visto che Teramo non era caduta. Perché se cade qua, significa che a Teramo non ci resta niente”. Un attimo di silenzio in quella stanza del quarto piano. Poi il detenuto riprende: “Ho pensato alla mia famiglia, mi hanno fatto telefonare, ci hanno fatto telefonare, ma a casa non mi hanno risposto. Pure loro erano scappati fuori”. Il suo compagno di stanza, rom anche lui, racconta la paura: ha dormito fuori anche la seconda notte, con un’altra decina di persone a cui è stato consentito di restare a dormire al passeggio.

Notti insonni. “Incontro un artista di Martinsicuro, capello lungo, curato, parla rispettando il famigerato congiuntivo”, riprende la parlamentare vastese, “prima di dirmi del terremoto mi racconta di aver partecipato al Giubileo dei carcerati, sminuisce la paura e ci tiene a dire – e faccio in modo di sentirlo solo io – che tutti sono stati assistiti, rassicurati, e che il direttore e la sorveglianza hanno passato con loro tutta la notte. Qualche minuto prima il direttore aveva detto la stessa cosa raccontandola con un’immagine: “Eravamo lì seduti in cerchio, come quegli anziani seduti sull’uscio”…”. In fondo al corridoio spunta il volto di un romeno, la sua stanza ha un che di ricercato: ha ricoperto con precisione le testate del letto con un motivo leopardato, passa veloce sulla paura delle scosse anche se ci tiene a dire che in Romania il terremoto non c’è, vuole andare in un carcere dove possa lavorare. Qui il lavoro serve a vivere o meglio a sopravvivere. Il viaggio nel carcere continua.

Abbi cura di te. “Rincontro un giovane che avevo conosciuto nel corso di una visita al carcere di Viterbo, è uno impegnato in politica, mi chiama per nome, indossa una maglia rossa con sopra scritto CCCP, mi nasce spontaneo un sorriso, un abbraccio, gli chiedo della famiglia, ricordo che quando ci siamo incontrati il padre stava male, mi dice che nel frattempo è morto. Ha uno sguardo vivace, la barba curata, nella sua stanza, il piatto del pranzo “oggi coniglio”, due numeri recenti de Il Manifesto, sulle pareti immagini che mi aspetto, il Che e Marco Pannella, e che non mi aspetto, Padre Pio, una battuta sul referendum, storce il naso di fronte alla mia intenzione di voto, ci avrei giurato. La solita raccomandazione: “non fare guai e abbi cura di te”. Sul terremoto anche lui mi dice che la prima notte c’è voluto tempo per aprire le stanze, per quanto hanno voluto correre”. Ma non è stata solo dei detenuti la percezione del tempo.

Oltre il blindo. “Era notte e sono tante porte”, è uno del personale di custodia a dirlo, “basterebbe un pulsante centralizzato per aprire le porte contemporaneamente in caso di emergenza”. Giusta riflessione che racconta quanta angoscia c’è nel cuore di chi sa di essere legato a doppio filo a chi sta dentro. A guardarlo da fuori a questo bastione su una collina sembra il castello di Dracula, dove l’isolamento si accentua per un servizio di trasporto urbano da potenziare e tratti di strada sconnessi. Eppure il contatto con le famiglie fa parte del percorso di recupero sociale e per quelli con disturbi psichici, è parte del percorso di cura. Dopo il terremoto un’ala del quarto piano, quella dove si è ballato di più, è stata svuotata e quaranta detenuti trasferiti. Ma la paura per una nuova scossa non la cancelli.

Non ci sono crepe. È un Istituto complesso quello di Castrogno, per la eterogeneità degli ospiti, donne, alta sicurezza, protetti e delinquenza comune, tra questi, psichiatrici e tossici che mal si adattano nel sistema carcerario attuale e per cui la parte di medicalizzazione dovrebbe essere rinforzata. La strada che da Colleparco e l’università di Teramo sale fino al carcere sembra, in alcuni tratti, una mulattiera. Lì in cima, il Castrogno sembra la fortezza Bastiani, avvolta dal silenzio e da una solitudine sconfortante.

Le verifiche di stabilità e sicurezza sono state fatte: non ci sono crepe, nessun problema ma il terremoto fa paura a tutti. Sono le 13 quando Maria Amato spunta all’uscita della fortezza Castrogno: “A chi oggi mi ha detto “vai al carcere, con tutti i problemi che ci sono?” rispondo che qui, nel cratere sismico, in un posto che continua a tremare, ci sono quasi 200 tra guardie, personale sanitario, educatori e 285 detenuti. Quasi 500 persone. Restiamo umani”.

Lorenzo Colantonio da il Centro

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