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Sindh (Pakistan): a sei mesi dalle alluvioni la situazione resta grave

A sei mesi dall’alluvione nelle zone devastate la popolazione resta in attesa. Nel frattempo, oltre alla malnutrizione e alle malattie, si assiste anche a nuove discriminazioni in una guerra tra poveri di cui sicuramente non si sentiva la necessità

di Gianni Sartori

Sicuramente ci avranno già pensato, forse operativi in zona già da qualche mese (e sarà solo colpa mia se non ne sono venuto a conoscenza).

Mi riferisco alla drammatica situazione in cui versa una parte della popolazione del Sindh colpita oltre sei mesi fa (agosto 2022, stagione dei monsoni inoltrata) da devastanti alluvioni e ai nostrani benefattori d’alta quota impegnati da tempo nel realizzare ponti e strutture turistiche (“rifugi”) in alcune zone del Pakistan.

Capisco che qui, nel Sindh (già dal nome un’area tendenzialmente fluviale, v. l’Indo) rischierebbero di sentirsi un po’ spaesati, ma sicuramente saprebbero andar oltre con la buona volontà, lo spirito “alpino” che li contraddistingue.

Se non altro, in quanto italici, potrebbero attivarsi a favore delle minoranze cristiane che – oltre alle conseguenze dell’alluvione – stanno subendo ripetute ritorsioni da parte della comunità musulmana. nell’ennesima guerra tra poveri di cui non si sentiva la mancanza.

Tra i Sindhi (abitanti del Sindh, una delle quattro province del Pakistan) troviamo appartenenti a diverse confessioni religiose. Oltre all’islam, induismo, zoroastrismo e cristianesimo. La situazione, in precedenza relativamente stabile, subì una sorta di stravolgimento dopo il 1947 (spartizione tra India e Pakistan) quando un gran numero di musulmani si trasferì qui dall’India. Mentre i Sindhi di religione induista emigrarono in India.

Per chi rimase in Pakistan, come la piccola comunità cristiana, non mancarono poi problemi di discriminazione. Una questione tornata regolarmente d’attualità ogniqualvolta si va inasprendo la crisi economica o sanitaria. Oppure in caso di disastri naturali.

Proprio quello che sembra stia accadendo a causa delle alluvioni dell’estate scorsa che – principalmente per la rottura degli argini – avevano sommerso e distrutto raccolti, abitazioni, infrastrutture…

Stando ai dati forniti dal National Disaster Management Authority, già il 30 agosto i morti accertati (calcolando non solamente il Sindh, ma anche il Balochistan, l’altra provincia duramente colpita) erano almeno 1500 (oltre un terzo bambine e bambini). Le case distrutte o letteralmente sprofondate circa un milione (a cui bisognava  aggiungere 18 mila scuole e 160 ponti crollati). Molti di più ovviamente gli edifici gravemente danneggiati, comprese le già carenti strutture sanitarie. Quasi un milione di capi di bestiame travolti dalla piena, per non parlare dei 2 milioni di ettari di coltivazioni (molti frutteti) persi irreparabilmente. Così come gran parte delle scorte alimentari.

Non che prima fosse tutto rose e fiori.

Già in precedenza, non solo nelle regioni colpite, si calcolava che il 96% dei bambini sotto ai 2 anni non avevano sufficiente accesso al cibo mentre il 40% dei bambini sotto ai 5 anni soffriva di malnutrizione cronica.

Inoltre, con la perdita di gran parte dei mezzi di sussistenza, non potevano che aumentare due piaghe croniche delle popolazioni diseredate del Pakistan: quella del lavoro minorile e delle bambine date in sposa, ossia praticamente vendute.

Ma evidentemente non bastava. Se non proprio il “peggio”, almeno il seguito doveva ancora arrivare.

Stando a quanto denunciano alcune Ong nel villaggio di Allah Bachao Shoro (devastato dalla catastrofe naturale) la scarsità di beni di prima necessità e di medicinali ha trovato un capro espiatorio nelle famiglie cristiane (una cinquantina) qui finora residenti. Temendo di subire attacchi violenti, dopo le continue minacce da parte dei concittadini musulmani, si sono trasferite altrove nelle tendopoli. Una quindicina di famiglie a Ghot Shora (in una zona comunque di degrado e sottosviluppo), una dozzina nella bidonville di Ghareebabad e un’altra quindicina, quella attualmente messa peggio, in riva a un canale (in zona malarica e di febbre dengue) ad Hari Camp.

Vivono da indigenti, dormendo in terra su giacigli di fortuna. Soffrendo di malnutrizione e colpiti da malaria e malattie della pelle. Attingendo l’acqua dai canali con le prevedibili conseguenze sanitarie (come minimo diarree acquose).

Restando in fiduciosa attesa…

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